mercoledì 20 marzo 2013

Una Foresta Personale

Da “The Great Change”. Traduzione di MR


Di Albert Bates



“Ogni anno a Capodanno, scrivo la lettura del contatore elettrico, faccio un grafico dei chilometri percorsi da qualsiasi veicolo abbia usato, compresi gli autobus, i treni e gli aerei e quantifico anche il mio uso di gas propano, legna da ardere, ecc. Da questo determino quanti alberi ho bisogno di piantare negli anni a venire per compensare l'impatto climatico del mio stile di vita”.



Quand'ero ragazzo, i miei genitori si sono trasferiti dai sobborghi di Chicago a una zona densamente forestale del Connecticut, dove sono cresciuto. Il mio cortile erano quei boschi e giocavo con fortini, molte e diverse zone di campeggio o nascondigli ed una serie di casa sugli alberi. Mi piaceva passare la notte su un materasso di aghi di pino in un piccolo boschetto di pini e a volte l'ho persino fatto su 30 centimetri di neve fresca e farinosa. I miei genitori mi lasciavano anche arrampicare sugli alberi e giocare su un vecchio tappeto di scarti di legno che avevo incastrato fra i rami più bassi di una grossa quercia. In seguito ho costruito un tepee rotondo intorno a quell'albero ed ho passato molte notti estive vivendo lì dentro, imparando ad arrampicarmi su e giù con delle corde.

Immagino si possa dire che glia alberi sono come la famiglia per me. Essi rimangono parte della mia vita ovunque vada. Quando avevo 17 anni ho imparato ad occuparmi dei cavalli e, più tardi, quando sono arrivato alla Fattoria in Tennessee, fresco di diploma, ho usato queste capacità per usare i tronchi serpeggianti dal bosco con una squadra di giumente belghe. Ho costruito una tenda per la mia sposa su una piattaforma di tronchi di quesrcia scavati a mano acquisiti in quel modo. La gente a volte veniva all'Ecovillage Training Center alla Fattoria e si meravigliava per il piccolo diametro dei pali rotondi usati come travi sul tetto molto ampio che copriva la nostra taverna del Drago Verde, ma io sapevo quando ho costruito quel tetto che i pali rotondi erano molto più forti del legname lavorato. Erano come i rami d'albero che sostenevano le mie case sugli alberi.

Iniezione in pozzo profondo

Trentenne, sono stato avvocato di parte civile in causa contro una azienda chimica in una città a 15 miglia dalla Fattoria. L'azienda produceva organofosfato, pesticidi ed erbicidi ed iniettava i prodotti di scarto, compresi i propri lotti scaduti, in un pozzo profondo. I laboratori per la Qualità dell'Acqua dello Stato aveva testato gli effluente verde luminescenti e aveva detto che era il più tossico che avesse mai incontrato. Una singola goccia fatta cadere nella loro vasca dei pesci li aveva uccisi tutti in 24 ore.

Quel pozzo era profondo un miglio e la pressione ha fratturato il letto di calcare – come il fracking – per rendere la roccia più ricettiva a milioni di galloni di questo infuso delle streghe. La fratturazione aveva anche aperto dei varchi nella falda acquifera di Knox, uno dei più grandi fiumi sotterranei del Nord America e presumibilmente avrebbe continuiato a contaminarne liberamente altre riserve potenzialmente importanti di acqua dolce degli Stati Uniti sudorientali su un'area molto vasta. Ogni pozzo di prova che l'azienda aveva perforato mostrava che la contaminazione era già arrivata molto lontano dal sito di quanto l'azienda fosse disposta a monitorare. Lo Stato non aveva le risorse per perforare pozzi di prova da milioni di dollari, quindi si è potuta mai conoscere l'estensione reale del danno. Mentre l'acqua dei pozzi dell'area diventava gradualmente verde fluorescente, l'azienda ha pagato i proprietari delle terre e sigillato i loro pozzi.

Quando il nostro gruppo ambientalista locale ha fatto causa all'azienda, l'azienda ha detto al giudice che non c'era ragione di proteggere la falda acquifera perché la regione sudorientale aveva un sacco di acqua dolce in superficie o vicino ad essa. In delle memorie scritte, ho fatto due obiezioni contro ciò: popolazione e cambiamento climatico. La risorse di acqua dolce erano di valore e lo sarebbero state sempre di più.

Questo nei primi anni 80 ed io ero lì che andavo in una corte del Tennessee e cercavo di fare un caso del riscaldamento globale. Ciò mi ha costretto a leggere quasi tutti gli studi su cui riuscivo a mettere le mani, a contattare gli esperti e a pregarli di venire a testimoniare. Ho cercato di semplificare un tema estremamente complesso così che il giudice o il giurato medio potessero capirlo, nonostante reti di pseudoscienza arcana a far confusione intessute dagli avvocati delle aziende e le eccezioni all'interno della Conservazione delle Risorse federali e il Recovery Act sufficienti a svuotare un lago.

Come è venuto fuori, il caso non è mai arrivato a processo. Il Dipartimento di Salute e Ambiente del Tennessee mi ha contattato persuadendomi che avrei dovuto aiutarli aa abbozzare delle norme che proibissero iniezione in pozzi profondi e la fratturazione idraulica, che accettai di fare. E' stata una strada molto meno costosa per il locale gruppo ambientalista, lasciare che lo Stato sostenesse le spese per gli esperti per combattere la lobby industriale ben finanziata e senza scrupoli. Avevamo vinto, anche se ci sono voluti alcuni anni prima che la vittoria fosse siglata e le aziende chimiche facessero i bagagli e lasciassero la città. I loro rifiuti tossici sono ancora laggiù, per adesso.


  • In ogni campagna non violenta ci sono quattro passi fondamentali: mettere insieme i fatti per determinare l'esistenza di un'ingiustizia, la negoziazione, l'auto purificazione e l'azione diretta.  M.L. King, Lettere da una prigione di Birmingham (1963).


Nel periodo che ho passato a leggere e parlare con gli esperti mi sono spaventato. Il riscaldamento globale un affare molto più grande di quanto pensassi in origine. Avevamo solo mezzo grado in più rispetto al secolo precedente in quel momento, ma c'erano già segni che i poli si stavano fondendo, che il livello del mare si stava alzando e siccità più frequenti stavano arrivando sui continenti. Nel 1988, il fiume Mississippi era sceso così tanto che il traffico fluviale è stato sospeso. Il mio giovane uomo del congresso, Al Gore Jr., ha aperto le audizioni al Campidoglio. Gli scienziati iniziavano a presentarsi al pubblico per suonare l'allarme. Le grandi compagnie del petrolio e del carbone cominciavano a finanziare campagne per minare e calunniare quegli scienziati e per avvelenare il dibattito pubblico con studi fasulli e teorie della cospirazione. La politica ufficiale dell'amministrazione Bush era la censura del cambiamento climatico. Tutti quei segni erano minacciosi.

Depositi di carbonio

I combustibili fossili hanno provocato un cambiamento tale nella civiltà che è difficile immaginare di abbandonarli volontariamente. Hanno alimentato la rivoluzione industriale e globalizzato il mondo con ferrovie e battelli a vapore. Hanno posto fine ad una pratica particolarmente odiosa che è stato il metodo tradizionale per costruire gli imperi nei 5.000 anni precedenti, soppiantando la lunga tradizione di schiavi umani con applicazioni casalinghe di “schiavi energetici” e “risparmio energetico”. La Guerra Civile Americana è stata l'ultimo sussulto per impiantare l'economia ed è finita con la vittoria schiacciante degli industriali dell'acciaio e della loro energia fossile, che hanno proseguito estendendo il loro nuovo impero con la Guerra Ispano Americana e tutte le guerre per le risorse da lì in avanti. La fine del carbone e del petrolio significa un ritorno alla schiavitù o possiamo imparare a costruire una società egalitaria all'interno del bilancio energetico solare? Solo il tempo lo dirà.

Dall'altra parte della contabilità, ci sono pochi segni promettenti che qualcosa possa essere fatto per invertire gli effetti di tre secoli di dipendenza da petrolio e carbone. Le foreste del Nord America rimangono un deposito netto di carbonio, ma quando i terreni passano da foresta ad agricoli, ciò genera un picco enorme di carbonio in atmosfera. In Messico, che sta perdendo più di 5.000 km2 di foresta all'anno, il disboscamento, gli incendi e il degrado del suolo contano per il 42% delle emissioni annuali di carbonio stimate del paese. In aggiunta al carbonio perso con gli alberi, i suoli perde il 25-31% del loro carbonio iniziale (alla profondità di un metro) quando vengono arati, irrigati e coltivati.

Negli Stati uniti, i terreni coltivati sono aumentati da circa 2.500 km2 nel 1700 a 2.360.000 km2 nel 1990 (anche se quasi tutto questo aumento è avvenuto prima del 1920). I pascoli si sono estesi da 1.000 km2 a 2.300.000 km2 nello stesso periodo. La favolosa era dei cowboys è stata fra il 1850 e il 1950 e il disegno si è ripetuto in Canada e Messico. Ma poi è successo qualcosa di diverso.

In parte a causa del Dust Bowl e alle risposte organizzate dell'amministrazione Roosevelt, in parte a causa della Grande Depressione e parte a causa di un'etica di conservazione emergente, dopo il 1920 molti terreni coltivabili sono stati abbandonati nel nordest, sudest e nelle regioni centro-settentrionali e 100.000 km2 sono stati riforestati dalla natura. Fra il 1938 e il 2002, gli Stati Uniti hanno guadagnato 123 milioni di acri di foresta dall'abbandono delle fattorie mentre hanno perso 150 milioni di acri per il disboscamento, principalmente nel sudest e nel nordovest del Pacifico. Questa tendenza, perdita marginale netta, continua oggi negli Stati uniti e in Canada, al contrario del Messico che sta rapidamente distruggendo le proprie foreste senza ripiantarle da nessuna parte.


  • TABELLA: Bilancio del carbonio della foresta di Harvard dall'inventario forestale e misurazioni del flusso di covarianza del vortice, 1993- 2001. I valori positivi sono pozzi, i valori negativi sorgenti. Da Barford, C.C., et al., Fattori che controllano il sequestro a breve e lungo termine della CO2 atmosferica in una foresta di media latitudine. Science, 294:5547;1688-1691 (2001).

  • TABELLA: Confronto di scambio ecosistemico netto (net ecosystem exchange - NEE) di diversi tipi ed età di foreste temperate. Il NEE negativo significa che la foresta è un pozzo per la CO2 atmosferica. 81 anni di dati dai siti ed una rete di saggi di sintesi (Law et al., 2002). Il NEE é stato mediato per sito, quindi la media è stata determinata per tipo di foresta e classe di età. Dal Primo Rapporto sullo Stato del Ciclo del Carbonio (SOCCR): Bilancio del Carbonio Nordamericano ed Implicazioni per il Ciclo Globale del Carbonio. Un rapporto del Programma Scientifico sul Cambiamento Climatico del Subcomitato di Ricerca sul Cambiamento Climatico degli Stati Uniti. A. W. King, L. Dilling, et al, eds. (2007), Appendice D, p 174.

L'effetto di pozzo netto di una foresta in recupero è variabile, ma la media della foresta decidua di successione di 200 grammi di carbono per metro cubo per anno o 2 tonnellate per ettaro. Questo è calcolato considerando la crescita annuale e la mortalità sopra e sotto terra, i cambiamenti chimici nel legno morto e i cambiamenti netti del carbonio nel suolo. 
(Pacla S., et al., le misurazioni di covariante di vortice ora confermano le stime dei pozzi  di carbonio dagli inventari delle foreste, in King & Dilling, ibid, 2007).

A un certo punto del 1985 ho cominciato a piantare alberi per compensare la mia impronta personale di carbonio. Oggi la foresta è di circa 30 acri (12 ettari) e si pianta annualmente da sé. Ho scritto un libro, Clima in Crisi, mettendo insieme le mie ricerche legali e esponendo la scienza del clima in termini che i non scienziati, come me, potessero afferrare. Nel 1995, mi sono ritirato dalla legge per diventare un insegnante di Permacultura e un progettista di ecovillaggi. Ho continuato a partecipare ad incontri scientifici ed ai negoziati internazionali sul clima, ho contribuito alla discussione con un blog, molti articoli per riviste e libri. Mi sono tenuto aggiornato con le ultime scoperte, sempre cercando strade che potessero fornire soluzioni, non solo per la mia impronta personale, ma anche per la catastrofe climatica in arrivo per tutti noi. 

Spazzole atmosferiche

Potremmo spendere parole qui per discutere di geoingegneria, sostituti dell'energia fossile, biochar e del passaggio a qualche forma di agricoltura ecologica, ma la verità della cosa è che non c'è niente che possa guarire il nostro squilibrio chimico globale più rapidamente degli alberi. 

Come ho scritto in Clima in Crisi, e più tardi in altri libri, le foreste sono spazzole. Esse assorbono CO2 dall'aria, la trasformano in O2 con la magia della fotosintesi e sequestrano il carbonio in lignina e cellulosa. Esse lo trasferiscono anche in profondità nel terreno attraverso le loro radici e la rete alimentare del suolo.

Noi, gli esseri umani, potremmo essere capaci, in condizioni ottimali, di arrivare a sequestrare una gigatonnellata di carbonio (petragrammi di Carbonio o PgC) all'anno passando ad una “agricoltura al carbonio”: gestione olistica, compostaggio, keyline e non aratura biologica. Il pieno potenziale del biochar è stimato da 4 a 10 PgC all'anno, se nel mondo si impiegassero ampiamente reattori a pirolisi biomassa-energia. Le foreste, con il rimboschimento a tutto campo e l'imboschimento, hanno un rendimento potenziale di 80 PgC all'anno.





Il ciclo climatico, con 393 ppm di Carbonio nell'aria, sta attualmente aggiungendo 2 ppm all'anno in atmosfera. Questo rappresenta una ulteriore ritenzione di 3,2 PgC al di sopra di quello che la Terra è in grado di drenare al terreno o agli oceani. Gli oceani si stanno acidificando – ad un ritmo disastroso – perché un eccesso di Carbonio viene drenato, quindi ciò che deve accadere è che più Carbonio deve essere preso sia dagli oceani sia dall'atmosfera e sepolto nel terreno, cioè, di fatto, da dove proviene l'eccesso, in primo luogo. 

Andare oltre lo zero

Per tornare a 350 ppm – l'obbiettivo di Bill McKibben – dobbiamo diminuire il carbonio atmosferico di 42 ppm o 67,4 PgC. Se volessimo raggiungere quell'obbiettivo per il 2050, diciamo, (37 anni da adesso), avremmo bisogno di avere una rimozione di Carbonio media netta di 1,82 PgC all'anno. Quindi dobbiamo passare da +3,2 a -1,8 di media in circa 40 anni. Naturalmente molti, me incluso, non credono che 350 sia abbastanza buono da togliere il grasso dal fuoco. Preferirei che puntassimo a 320 ppm per il 2050 se vogliamo sfuggire al peggio che Madre Natura sta ora preparandosi a scodellare. Un obbiettivo di 320 in 37 anni significa che dobbiamo abbassare il carbonio atmosferico dei 72 ppm, o 115 PgC; un tasso di rimozione media netta di Carbonio di 3,1 PgC all'anno. In altre parole, dobbiamo passare dall'aggiungere 3,2 PgC di inquinamento da gas serra all'anno alla rimozione di circa la stessa quantità. Dobbiamo passare ad un negativo netto per almeno 40 anni.  

L'orticoltura biologica e la ri-mineralizzazione del suolo per cui Vandana Shiva, Elaine Ingham, Dan Kittredge ed altri sono entusiasti, non ci porteranno a quel punto, anche se è un buon inizio ed un punto importante con molti altri benefici. Il biochar ci potrebbe portare a quel punto, ma l'industria è immatura, poco compresa dagli ambientalisti e dipendente da finanziamenti che potrebbero o no essere disponibili in un'era di decrescita e di collasso economico. Per passare a 3 o 4 PgC all'anno è probabile che ci vorranno più di 40 anni. 

Piantare alberi è la nostra migliore scommessa. I Corpi Civili di Conservazione di Franklin Roosevelt hanno piantato massicce fasce protettive per arginare il Dust Bowl ed i posti di lavoro creati hanno aiutato gli USA a sollevarsi dalla Grande Depressione. La stessa cosa potrebbe essere fatta in Spagna e Grecia, per non parlare dell'Africa. E, prima di dimenticarmene, due dei più grandi riforestatori al mondo, Cristoforo Colombo e Genghis Khan, hanno dimostrato la capacità della nostra specie di cambiare rapidamente il clima. Essi hanno mostrato che potremmo addirittura accelerare l'avvio di una piccola Era Glaciale, se volessimo. Parliamo di aria condizionata! Lasciamo perdere.

Ora, il pianeta sta ancora rapidamente perdendo le foreste. Ho fatto questa illustrazione per il mio notiziario Diritti Naturali, a metà degli anni 80:

Nel 1988, essendo stati soppressi dalla pubblicazione i prestiti dai rapporti dell'agenzia federale da parte dell'amministrazione Bush, ho disegnato dei grafici per mostrare cosa sarebbe accaduto alle foreste dell'est in un mondo più caldo di 5°C ed il tipo di migrazione di specie che ci si poteva aspettare:



Un punto più importante, che ho sollevato su Clima in Crisi, era che la composizione a chiazze individuale delle foreste era meno importante delle sinergie che vengono perse quando quelle composizioni vengono spezzate. E' importante cosa succede fra chiazze, non solo riguardo alle piante. Dobbiamo considerare gli animali impollinatori e che immagazzinano i semi. Non possono avere cibo solo in una stagione, ne hanno bisogno in tutte le stagioni, altrimenti se ne andranno. Alcune piante ed animali sono migratori veloci (armadilli e abete rosso) ed altri sono molto più lenti (formiche tagliafoglie e ginkgo). Quando si forza un rapido cambiamento sistemico, la rete delle connessioni viene rotta, la biodiversità collassa ed i servizi ecologici sono compromessi. La rete si disfa.  

Impronte di gas serra (GHG Footprints)

Nei primi anno 90 scherzavo sul fatto che, prima di scrivere il mio libro sul clima, la mia impronta di inquinamento di gas serra è stata in costante declino per 10 anni. Dopo aver scritto il libro è salita alle stelle. Gli inviti a parlare continuano ad aumentare anche oggi, 23 anni dopo. 

Ogni anno a Capodanno, scrivo la lettura del contatore elettrico, faccio un grafico dei chilometri percorsi da qualsiasi veicolo abbia usato, compresi gli autobus, i treni e gli aerei e quantifico anche il mio uso di gas propano, legna da ardere, ecc. Da questo determino quanti alberi ho bisogno di piantare negli anni a venire per compensare l'impatto climatico del mio stile di vita.

Piantare alberi come compensazione personale richiede un po' di pianificazione anticipata, perché i calcoli dipendono da quanto tempo un albero crescerà, quanto diventerà grande e da quello che probabilmente restituirà all'atmosfera alla fine della sua vita. Bisogna anche anticipare le dinamiche cangianti introdotte dal rapido cambiamento climatico. Ciò mi ha portato ad organizzarmi con un contratto a lungo termine di un po' di terra e per acquisire nuove conoscenze su come piantare e gestire una foresta resiliente al clima. 

In questo momento ho il vantaggio di visite alle foreste di Pioneer e Alford nelle Ozarks, che descrivo su La Soluzione del Biochar (2010), così come foresta selvaggia secolare in Scozia, Columbia Britannica, Queensland del Nord in Australia, Il bosco di Muir in California, la Penisola di Darien in Colombia, gli altipiani Mesoamericani ed il Bacino dell'Amazzonia, per nominarne qualcuno. Ho studiato Permacultura, con riferimento in particolare al lavoro di Christopher Nesbitt, David Jacke ed Eric Toensmeier per progettare una metodologia per costruire foreste per risorse alimentari. Ma, nel 1985, non avevo niente di tutto questo, quindi ho cominciato su una parte delle fattoria dei miei genitori che era in via di transizione da campo per la produzione di ortaggi a boscaglia bassa. 

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“Se si comprende lo sforzo necessario di un singolo individuo di avere zero emissioni di carbonio, si potrebbe capire quello che servirebbe per equilibrare l'impronta di carbonio di una città moderna di decine di milioni di individui”.

Nel 1979, con la nascita del mio secondo figlio, mia madre mi ha raggiunto nel Tennessee e ha comprato 88 acri vicino al nostro ecovillaggio in erba. Siccome la nostra comunità intenzionale aveva quella terra a mezzadria, i campi sono stati circondati da terrazze e forniti di fossi nei tardi anni 70, con la ruspa della Fattoria e il grader stradale, usufruendo della guida del locale servizio di conservazione del suolo (un'altra reliquia di Roosevelt), quindi era già in condizioni molto buone da punto di vista della gestione keyline. Ho raccolto il suggerimento del locale agente del USDA ed ho piantato pino rigido (Pinus taeda), il che è risultato essere un buon consiglio. Il pino rigido è resistente, cresce in fretta , tollera la siccità e la sua portata si sta espandendo man mano che il sudest si scalda. Ho piantato anche castagni, gelsi, agrumi rustici e bamboo.  

La lunghezza della stagione libera dal gelo (e la stagione agricola corrispondente) è cresciuta a livello nazionale dagli anni 1980. NOAA/NCDC, National Climate Assessment 2013 (bozza in anteprima).

Interno del Prancing Poet, in costruzione nel 2012
Nel 1977-78, anche prima che mia madra comprasse la sua fattoria, ho cominciato a sperimentare a casa mia con ibridi di pioppo, sviluppati in Pennsylvania, confrontando le caratteristiche della loro crescita con il pioppo liodendro (Liriodendron tulipifera). Stavo cercando una fornitura di calore per l'inverno sostenibile ed un substrato per la produzione di funghi che potessero essere raccolti nel bosco ceduo e capitozzato. Nel 1985 ho applicato questa conoscenza per piantare una linea di protezione di pioppi ibridi lungo un confine della proprietà di mia madre. 
  
La Fattoria della Collina dei Noci

Nel 1998, ho piantato 3.000 noci ibridi, confrontando i rizomi innestati sviluppati dall'Università di Pardue per l'impiallacciatura con il noce nero nativo usato principalmente per mobili e pavimenti in legno e, secondariamente per un prodigioso raccolto di noci oleose. Quasi tutte le costose piantagioni ibride sono andate perdute entro 5 anni a causa di conigli, insetti, siccità e tempeste di ghiaccio. I noci nativi invece hanno avuto successo e sono diventati una parte durevole della progettazione della mi foresta in quella che la nostra famiglia ora chiama la Fattoria della Collina dei Noci. Quest'inverno, stiamo usando i malli oleosi per colorare il rivestimento interno di una nuova aggiunta all'Ecovillage Training Center della Fattoria. I tardi anni 90 hanno visto anche l'introduzione di molti bamboo, lungo i fossati e nei “canneti di interruzione” (gioco di parole fra canebrakes – canneti – e canebreaks, ndt.) dove i torrenti esonderebbero con le piene. Ho piantato una mezza dozzina di varietà a macchia di leopardo, sparse su oltre 20 acri. Queste si sono moltiplicate così rapidamente che solo loro compensano più del consumo annuale al Global Village Institute, compreso l'Ecovillage Training Center e tutti i suoi impiegati, visitatori e volontari e tutti i miei viaggi annuali nel mondo per fare corsi e laboratori. Tenendo conto del sequestro sia sopra che sotto terra, 10 acri di bamboo trattengono 63,5 tonnellate di Carbonio all'anno (tonnellate metriche di carbonio all'anno).

Peter Bane, l'autore del Manuale di Permacultura,  mi ha detto che 6 tonnellate di Carbonio all'anno sono coerenti con le cifre dei calcoli approssimativi per il mais, un altro fotosintetizzatore di C-4. La differenza col bamboo è che essendo annuale, il mais commestibile viene raccolto e consumato ogni anno e le stoppie si decompongono piuttosto rapidamente, rilasciando il carbonio brevemente immagazzinato come gas serra. Il mais è di fatto una pompa di gas serra, perché preleva il carbonio del suolo nella pianta dalle radici robuste e lo rende più prontamente disponibile per l'atmosfera. Il bamboo, se sistemato in boschetti o usato per mobili, costruzioni o biochar, permane molto più a lungo nell'ambiente terrestre. La Foresta Albert Bates (non la chiamiamo così, sto scherzando) ora occupa circa 30 acri. Dopo che è morta mia madre, l'Istituto ha affittato 44 acri dalla Collina dei Noci per il progetto e piantato alberi da frutto, cespugli di bacche, bamboo e cactus, così come alberi locali comprovati e veraci. Sappiamo che il cambiamento climatico causerà la migrazione di molte specie di alberi famigliari e stiamo lavorando per riempire il vuoto piantando specie che è più probabile che sopravvivano in condizioni semi tropicali, sebbene interrotte da blizzard invernali.

Piantare alberi non è così facile come sembra quando la tua esperienza si riduce a robusti trapianti di pino rigido (taeda) forniti dal Servizio Forestale a piccoli fasci. Gran parte degli alberi resistono al trapianto e devono essere incoraggiati e coccolati. Oliver Rackham, in Alberi e boschi nel paesaggio britannico (2001) dice: “piantare un albero è simile a sparare ad un uomo nello stomaco”. Quello che intende è che gli alberi sono univocamente adattati all'angolo del Sole, al flusso delle acque superficiali e dei nutrienti, alla comunità della foresta e ad altri fattori che raramente consideriamo. Far crescere un albero sul posto dal seme o da piccole piantine è spesso più probabile che abbia successo che non trapiantarli  come rizomi innestati o alberi quasi maturi.

Il mio metodo di piantagione si basa pesantemente sulla rigenerazione naturale, e in secondo luogo sulla selezione di caratteristiche desiderabili. A causa del suolo povero dell'altipiano nella nostra regione, i cedri sono delle specie pioniere comuni. Il pioppo liodendro e la robinia (Robinia pseudoacacia) sono anch'essi comuni. Gli ecosistemi più disturbati si riconvertiranno a bosco attraverso la successione naturale, se lasciati liberi dal pascolo e senza che vengano tagliati. Abbiamo tagliato quelle aree che volevamo riservare alla piantagione perenne di maggior valore. Gli alberi auto-seminati sono generalmente più forti e crescono più in fretta degli alberi piantati, quindi favorendo lo spazio fra le macchie, lasciamo un sacco di spazio per la succesione naturale attraverso l'auto-semina.

Gran parte del lavoro con gli alberi viene fatto nella stagione dormiente, approssimativamente fra metà novembre e la fine di aprile. Mio figlio ora ha un vivaio alla Collina dei Noci dove pianta i semi in contenitori dentro delle serre nei mesi estivi, trapiantando le piantine in inverno. E' bravo a ripulire gli scarti delle piante dalle vendite del vivaio e dai mercati degli agricoltori e anche se quegli alberi hanno tassi di sopravvivenza ridotti a causa dell'eccessiva manipolazione e dell'abbandono, a volte alcuni riescono a sopravvivere e maturare. Da quelli, vengono coltivate ed incoraggiate nuove generazioni.

Ho piantato a densità di circa 100 piante per acro, ma quelle densità aumenteranno sostanzialmente quando la foresta si auto-riempirà. Immagino dai 400 ai 1.000 alberi per acro come più tipici al culmine, più una ampia gamma di piante di sottobosco. Ho chiesto a Frank Michael, ingegnere del Global Village Institute, di fare questi calcoli per me. Ha usato diversi approcci per eliminare le variabili inconoscibili. Questo è parte di un lavoro in divenire che pensa di pubblicare come libro in un prossimo futuro.

Calcolare il sequestro di carbonio

Per una foresta mesofila mista di querce e noce americano del tipo che stiamo piantando nella regione del Highland Rim del Tennessee centro meridionale, i dati concreti non sono prontamente disponibili, ma le appendici al Primo Rapporto del Cyclo del Carbonio del Programma Scientifico sul Cambiamento Climatico statunitense (2007) sono molto utili. Gli studi aggiunti dal NOAA suggeriscono che 400 alberi (un acro alla maturità) assorbirebbero strutturalmente 2,6 tonnellate di carbonio all'anno (2,6 tC/acro-a o 5,84 tC/h-a), sulla base di studi su 6 siti per 34 anni. I nostri 30 acri si trovano ora a circa il 5% della densità di biomassa finale, quindi sequestrano 3,9 tC/a. Raggiunta la maturità sequestrerebbero 78 tC/a. Forestando tutti i 44 acri, questi sequestrerebbero 114,4 tC/a.

Un altro approccio è quello di usare un coefficiente per la media di sequestro della foresta. Un riferimento standard per questo lavoro è “Mappatura Globale della Produttività Primaria Terrestre ed Efficienza nell'uso della Luce con un Modello basato sul Processo” (Global Mapping of Terrestrial Primary Productivity and Light-Use Efficiency with a Process-Based Model), di Akihiko Ito  Takehisa Oikawa su Cambiamenti Ambientali Globali nell'Oceano e sulla Terraferma, M. Shiyomi et al., Terrapub Edizioni (2004), pp. 343–358. Se applichiamo il numero che Ito e Oikawa citano — 0.5-0.6 kgC/m2-anno per la seconda crescita del bosco del nordico – ai nostri 44 acri (178,000 m2), arriviamo a 89-107 tC/a alla maturità, che è nello stesso ordine della stima della massa strutturale fatta usando le cifre del NOAA. Siccome siamo solo al 5% della maturità su 30 acri, la foresta attualmente risparmia circa 3 tC/a. 

Usando il calcolatore del carbonio sul sito Dopplr e tracciando la mia media dei viaggi annuali degli ultimi 5 anni, io produco circa 10 tonnellate all'anno di CO2, o 2,72 tC, col mio stile di vita da jet set. Per includere anche tutta l'energia incorporata ammortizzata in alimentazione, vestiario, gadget, posto di lavoro e casa, diciamo che siano 5 tC/a, anche se probabilmente sono sovrastimate. Così, a questo punto le mie piantagioni di alberi non coprono la mia impronta, anche se le mie piantagioni di bamboo lo fanno, senza contare che sto trascurando di menzionare i miei esperimenti con le alghe in zone umide artificiali. Alghe e bamboo sono le prime e le seconde piante più rapide nella fotosintesi di cui siamo a conoscenza.

La stima del sequestro medio annuale potenziale della mia foresta alla sua maturità, anche senza bamboo ed alghe, è di 89-114 tC/ad una densità di stoccaggio di 400 alberi per acro, permanentemente. Ciò cancellerà la mia impronta con i suoli nel tempo

La raccolta a fasi

Per il 2050 questa foresta dovrebbe essere relativamente matura e quindi continuerebbe solo ad immagazzinare carbonio agli stessi rapidi tassi ai quali lo faceva come foresta giovane se fosse stata raccolta selettivamente. Ne La soluzione del Biochar ho descritto il metodo proposto da Frank Michael per la raccolta a fasi. Presumo che gran parte del legno raccolta a quel punto sarebbe usato per costruzioni o per il biochar, sequestrando ulteriormente il suo carbonio piuttosto che ossidarlo verso l'atmosfera attraverso la decomposizione o bruciandolo. 

Nel metodo di raccolta a fasi, le specie miste native vengono piantate in griglie strette, distanziate per raggiungere una copertura chiusa in 4-6 anni e a quel punto metà dei giovani alberi vengono raccolti ed usati per la produzione di biochar (e accompagnare la cattura di calore); il biochar viene rimesso nella macchia. In 9 anni, gli alberi rimasti chiudono ancora la copertura e la metà vengono raccolti per il biochar e il legname. Questo ciclo viene ripetuto ai 12, 16,5 e 24 anni, ecc. Ad ogni passaggio, ci sono diverse opzioni:

1. Raccogliere tutti gli alberi e iniziare un ciclo di piantagione completamente nuovo; 

2. Inserire una rotazione agricola/orticola nella aree aperte, aggiungendo pacciame, compost liquido (compost tea), biochar e compost come emendanti del suolo; o

3. Lasciare che gli alberi rimanenti maturino e richiudano la copertura, mentre si favoriscono o si aggiungono piante di sottobosco.

La prima opzione rende più di 6,2 volte la biomassa per unità di tempo ed area di una piantagione forestale commerciale convenzionale. 

“Ho cercato di scoprire, fra i rumori delle foreste e delle onde, parole che gli altri uomini non potevano sentire, ed ho drizzato le orecchie per ascoltare la rivelazione della loro armonia”. Gustave Flaubert, November

La mia speranza che molto dopo che mene sarò andato, la foresta della mia vita continuerà a fornire servizi ecologici preziosi di tutti i tipi a coloro che ci abiteranno dopo di me, o per la mitigazione climatica o per il senso di meraviglia che può dare a un bambino il crescere in mezzo a grandi alberi. 

Mi rendo conto che è un lusso straordinario, per un essere umano, avere accesso a 40 acri di terra ed essere in grado di dedicare le risorse che servono per impiantare una foresta durevole, produttiva e resiliente al clima: Non voglio dire che tutti potrebbero o dovrebbero farlo – moltiplicate semplicemente 40 acri per 7,2 miliardi di persone e vedete che sarebbe impossibile. Ciò che sto dicendo è che l'impronta del carbonio di milioni di persone che vivono col mio stesso standard di vita, utilizzano aria, mare, miglia di terra ed usano fattorie alimentate da schiavi energetici fossili per prenotare il prossimo viaggio d'affari, non si cancella da sola. Il ciclo del carbonio terrestre è profondamente squilibrato (come lo sono quello dell'azoto, del potassio ed altri cicli), così tanto che quelle condizioni ora minacciano la nostra estinzione.

Se riconoscete lo sforzo che serve ad un singolo individuo per avere zero emissioni di carbonio, potete riconoscere cosa potrebbe servire per equilibrare l'impronta di carbonio di una città moderna di decine di milioni di persone. Gli studi che dicono che gli abitanti delle città sono più ecologici dei loro cugini di campagna spesso trascurano questo tipo di calcolo. 

Quindi, qual è la prescrizione? Mentre non tutti possono piantare una foresta personale, tutti possono stimare la propria impronta di gas serra e cominciare a ridurla. Ho fatto dei seminari su come scaldare la propria casa con stufe che producono biochar e su come usare il biochar nel vostro giardino (orto) per far crescere ulteriore biomassa, compreso il carburante per l'inverno. Sono attivo anche nei movimenti degli Eco-villaggi e delle Città di Transizione, che stanno sperimentando un futuro più luminoso, felice e fresco. Piantare alberi aiuta. Più foreste è meglio. Ma potrebbe non essere abbastanza. 








domenica 17 marzo 2013

Grandezza smisurata: il racconto del collasso


Di Ugo Bardi.

Da “Cassandra's Legacy” . Traduzione di MR



Non molto tempo fa, stavo parlando con un amico americano nel bosco vicino a casa mia. Mentre camminavamo, gli indicavo gli effetti del cambiamento climatico che erano visibili tutt'intorno a noi: alberi parzialmente secchi, vegetazione danneggiata, segni di incendi ed altro. Dopo un po', però, ho notato che le mie parole non producevano alcuna replica. Era come se lui non stesse ascoltando quello che stavo dicendo oppure, se poteva sentirmi, non riusciva a dare un senso a quello che dicevo. 

Il mio amico non è un negazionista climatico nel senso di qualcuno che è guidato da ragioni ideologiche. Era solo che per lui il cambiamento climatico era un concetto totalmente alieno. Non era proprio parte della sua visione del futuro del mondo, che lui sembrava vedere come dominato smartphone sempre più potenti. 

Penso che il modo in cui vediamo il mondo sia principalmente come se fosse una storia. Assorbiamo nuove informazioni confrontandole agli elementi concatenati del piano di una storia lunga e complessa che abbiamo in testa. Per alcuni di noi, è un racconto di progresso e di gadget sempre più sofisticati. Per altri, è un racconto di grandezza iniziale e di successivo fallimento. E col mio amico nel bosco era come se fossimo personaggi di storie diverse come se, diciamo, il principe Amleto incontrasse Homer Simpson.   

Il concetto del mondo come racconto mi è tornato in mente leggendo “Grandezza smisurata, il motivo per cui le civiltà falliscono”, un libro di William Ophuls. Sta tutto lì: la nostra storia, la storia della nostra civiltà che vediamo mentre passa attraverso la sua splendida traiettoria che l'ha portata ad altezze mai viste in passato, ma che finirà in un collasso ancora più splendido. 

Il libro non cerca di convincerci di niente, non crea modelli, non presenta soluzioni, non sostiene che dobbiamo cambiare comportamento. E' solo quello: un racconto del collasso che incombe su di noi in un libro sottile di meno di 70 pagine, scritto in uno stile che ricorda molto quello del “Declino e Caduta dell'Impero Romano di Edward Gibbon.

Un paio di estratti (p. 57)

“Senza mezzi termini, le società umane sono dipendenti dalle proprie idee dominanti, dai loro stili di vita ricevuti, e sono fanatiche nel difenderli. Pertanto, sono estremamente riluttanti a riformarle. “Ammettere l'errore e limitare le perdite”, ha detto Tuchman, “è raro fra gli individui, sconosciuto fra gli stati”.


E (p. 68)

“... la tracotanza di ogni civiltà è che essa è, come il Titanic, inaffondabile. Pertanto, manca la motivazione a pianificare in caso di naufragio. Inoltre, le contraddizioni e le difficoltà della civiltà sono visti non come sintomi di un imminente collasso ma, piuttosto, come problema da risolvere con migliori politiche e ulteriore organico

In un certo senso, è una storia affascinate, drammatica e dal ritmo rapido e per molti di noi è il racconto giusto del mondo per come lo vediamo. Altri, tuttavia, continueranno a vedere gli smartphone come più importanti del cambiamento climatico.






sabato 16 marzo 2013

E' La negazione la più grande barriera al cambiamento sostenibile?

Da “The Guardian”. Traduzione di MR (h/t Max Iacono)

Di

1 Febbraio 2013

La battaglia per il riconoscimento del cambiamento climatico potrebbe essere finalmente essere vinta ma, a meno che non troviamo modi innovativi per far fronte alla nostra paura di agire, potremmo ancora perdere la guerra.


Sono la paura e la negazione che ci impediscono di agire su questioni globali come il cambiamento climatico? Foto: Handout / Reuters


Esiste un vecchia barzelletta che dice che la negazione non è un fiume in Egitto (gioco di parole denial/the Nile, che si pronunciamo quasi allo stesso mondo in inglese, ndt.). Tuttavia, è la più perniciosa delle barriere nell'affrontare le sfide della sostenibilità della nostra epoca.

Non che dovremmo esserne sorpresi, perché, come esseri umani, siamo bravissimi a bloccare tutti i tipi di trauma, nella speranza di tenere insieme le cose solo un po' più a lungo.

Ci sono stati alcuni eventi durante la scorsa settimana che hanno portato la questione della negazione in una luce particolare. Ho parlato in privato con l'amministratore delegato di una grande azienda a Davos che mi ha detto che, nell'attuale difficile situazione economica, non era in grado di parlare di questioni di sostenibilità pubblicamente, in quanto gli azionisti avrebbero percepito questo come un perdere di vista la crescita dei profitti a breve termine.

Tornato a Londra un paio di giorni più tardi, l'amministratore delegato di una grossa impresa di investimento della città mi ha raccontato di quanto i dirigenti abbiano paura di esprimere la verità nei mercati. L'istinto gregario è vivo e vegeto quindi.

Forse ancora più preoccupante - dall'altra parte del mondo - è stata la risposta del premier del New South Wales, Barry O'Farrell, per le devastanti inondazioni che sono seguite a un'estate australiana di caldo senza precedenti.

"Cerchiamo di non trasformare questo quasi-disastro, questo episodio che ha danneggiato le proprietà e tante altre cose, in un dibattito politicamente corretto sul cambiamento climatico", ha detto.

E non è affatto solo. Il senso di enorme frustrazione tra i negoziatori del cambiamento climatico e i leader istituzionali a Davos circa l'incapacità di chi detiene il potere di prendersi la responsabilità era palpabile.

I vertici della Banca Mondiale, FMI e OCSE si sono incontrati privatamente coi leader politici e hanno detto loro, collettivamente, di dimenticare il concetto di crescita se non sono preparati ad affrontare i cambiamenti climatici e la scarsità di risorse.

Il discorso dell'ultimo giorno a Davos, era del presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim, che ha dedicato sette dei 10 minuti dello stesso ai presidenti e primi ministri mondiali parlando della terribile catastrofe che ci attende.

Per fortuna è pronto a mettere la testa oltre il parapetto. In un articolo del Washington Post, non avrebbe potuto essere più chiaro: "Proprio come le istituzioni di Bretton Woods sono state create per evitare una terza guerra mondiale, il mondo ha bisogno di un approccio coraggioso e globale per evitare la catastrofe climatica che gli si trova di fronte oggi. Bank Group è pronta a lavorare con gli altri per affrontare questa sfida. Con ogni investimento che facciamo e ogni nostra azione, dobbiamo avere in mente la minaccia di un mondo ancora più caldo e la possibilità di una crescita inclusiva verde.

Ha continuato: "Dopo l'anno più caldo mai registrato negli Stati Uniti, un anno in cui l'uragano Sandy ha causato miliardi di dollari di danni, una siccità record ha bruciato terreni agricoli nel Midwest e la nostra organizzazione ha riferito che il pianeta potrebbe diventare più caldo di sette gradi, cosa stiamo aspettando? Dobbiamo prendere le cose velocemente sul serio. Il pianeta, la nostra casa, non può aspettare."

Ma il suo squillo di tromba sarà caduto nel vuoto? La risposta a breve termine probabilmente è sì, ed i capi delle varie istituzioni sono in difficoltà su quale approccio adottare per ottenere reale traino.

Dire alla gente quanto sia brutta la situazione rischia di spingerla ancora di più verso la negazione, non vedendo alcuna via d'uscita. Ma il falso ottimismo maschera la verità che dobbiamo affrontare.

Achim Steiner, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente, crede che dobbiamo essere molto più positivi, mostrando fino a che punto siamo già arrivati negli ultimi 25 anni e come l'innovazione può portarci al livello successivo. Questa è una cosa buona e giusta, ma può rappresentare un approccio lento in un momento in cui abbiamo bisogno di cambiamenti rapidi e profondi.

Forse la risposta è quella di cercare idee altrove, soprattutto tra i professionisti che sanno come lavorare con la dipendenza e il trauma, perché se ci prendiamo il tempo di guardare in profondità, il dolore collettivo è alla radice dei problemi che dobbiamo affrontare.

L'economista Jeffrey Sachs, che era a Davos per parlare del suo ordine del giorno, la felicità, sa bene quanto sia importante adottare un approccio interdisciplinare. Ha imparato da giovane, quando è stato mandato in Bolivia per curare l'iper-inflazione, e si è reso conto che la conoscenza dell'economia da sola non era abbastanza per curare i mali di un paese.

Sachs, che è direttore dell'Earth Institute della Columbia University, l'anno scorso ha tenuto una conferenza di un giorno alla quale hanno partecipato esperti di una vasta gamma di discipline, tra cui il neuroscienziato Richard Davidson, il monaco buddista Matthieu Ricard e Martin Seligman, fondatore della psicologia positiva.

Il libro preferito del presidente della Banca Mondiale è il “Miracolo della Presenza Mentale” del maestro Zen, Thich Nhat Hanh, ed è probabile che i due uomini si incontreranno entro la fine dell'anno.

Quando ho intervistato Thich Nhat Hanh nel suo monastero francese di Plum Village qualche settimana fa, egli ha detto in generale delle persone: "Quando vedono la verità è troppo tardi per agire ... ma non vogliono svegliarsi, perché può farli soffrire, non possono affrontare la verità. Non è che non sanno cosa sta per accadere, solo che non vogliono pensarci...

"Vogliono darsi da fare per dimenticare. Non dobbiamo parlare in termini di ciò che dovrebbero fare e quello che non dovrebbero fare per il bene futuro. Dovremmo parlare con loro in un modo che tocchi il loro cuore, che li aiuti ad impegnarsi sulla via che li porterà alla vera felicità, la via dell'amore e della comprensione, il coraggio di lasciar andare. Quando avranno assaggiato un po' di pace e di amore, potranno svegliarsi".

Ciò che Davos ci ha mostrato è che, mentre la battaglia per l'accettazione del cambiamento climatico come realtà è stata finalmente vinta, a meno che non troviamo forme innovative per dissolvere la paura e la negazione dei popoli, siamo a rischio estremo di perdere la guerra.

venerdì 15 marzo 2013

Il petrolio di Mauro Annese

Avete mai visto del petrolio vero? Ovvero, vi è mai capitato di vedere anche solo qualche goccia del prezioso liquido?

Se non siete geologi petroliferi, è molto probabile che la risposta sia no. Anche per me, che me ne occupo ormai da anni, soltanto una volta ero riuscito a procurarmi un paio di boccette di roba nerastra; che poi però poi qualcuno mi ha chiesto in prestito e non mi ha più reso.

Così, c'è gente che conciona a lungo e con apparente competenza di risorse "convenzionali" e "non convenzionali", di "fracking", di "sabbie bituminose" e poi però ti accorgi che non ha la minima idea di cosa sta descrivendo. In effetti, è un gran disastro che quelli che parlano di petrolio in pubblico siano quasi sempre degli economisti, e quasi mai dei geologi.

Certo, uno può andare a leggersi i sacri testi di geologia del petrolio che spiegano come stanno le cose, ma molto, molto più in dettaglio di quanto la maggior parte di noi vogliano sapere. Se si cercano dei libri un tantino più divulgativi non siamo messi bene.

In inglese, ci sono ottimi testi di Colin Campbell e Kenneth Deffeyes, entrambi geologi petroliferi che si sono presi l'onere e l'onore di scrivere testi comprensibili anche ai non specialisti (specialmente Deffeyes è una miniera di informazioni pratiche su come si cerca, e si trova, il petrolio) . Ma in Italiano, non c'è quasi niente, a parte, come dicevo, testi scritti da persone con preparazione in economia (e che, di conseguenza, a volte contengono notevoli errori).

Per fortuna, rimedia Mauro Annese, producendo quello che è forse il primo libro divulgativo sulla geologia del petrolio scritto in Italiano. Annese è un geologo petrolifero "purosangue" e racconta la sua esperienza di una vita di lavoro in questo libro con grande dovizia di dettagli e di informazioni.

Certo, l'impostazione di Annese sull'argomento petrolio è tradizionale: non è un "picchista" e nemmeno ama le rinnovabili. Ma il libro merita di essere letto anche dai picchisti, come probabilmente i lettori di questo blog sono in maggioranza. Se non altro, per farsi un'idea dell'immensa complessità della faccenda petrolio.

Sapete, la questione del picco, come si è detto tante volte, ha poco a che vedere con l'esaurimento fisico del petrolio. E' più correlata a quello che Joseph  Tainter chiama "i ritorni decrescenti della complessità". Tainter vede la cosa in termini sociali e politici, ma il concetto vale in tanti campi diversi. Allora, a vedere la complessità dell'industria petrolifera moderna, ti viene veramente da pensare.

Tutta questa gigantesca e barocca costruzione ha costi enormi e richiede il lavoro di un numero incredibile di persone che hanno dedicato la loro vita a specializzarsi nelle varie sfaccettature della ricerca e della produzione petrolifera. Ma i ritorni economici tendono a decrescere per via dell'esaurimento, delle difficoltà crescenti, delle condizioni estreme delle regioni dove si estrae, e per tante altre cose; incluso i danni fatti dall'inquinamento prodotto dall'estrazione (ci ricordiamo il caso del Golfo del Messico nel 2010). E allora? E allora tutti questi fattori generano quello che alle volte chiamiamo "picco".




Il petrolio. Di Mauro Annese. Aracne editrice, 2013
 






mercoledì 13 marzo 2013

Davvero viviamo in tempi oscuri

Come parte di una piccola serie dedicata al ruolo del carbone nella storia d'Italia, ecco un post pubblicato nel 2007 sul sito di ASPO-Italia. Un post più recente sullo stesso argomento, lo trovate a questo link su "Effetto Cassandra"



Davvero viviamo in tempi oscuri
Molti anni fa, negli anni trenta, Bertolt Brecht scrisse un poema intitolato "A quelli che verranno" che cominciava con le parole "Davvero viviamo in tempi oscuri".

Per noi, quelli che sono venuti parecchi decenni dopo, i tempi oscuri di Brecht ci appaiono lontani in un certo senso, e in un certo senso fin troppo vicini. Torture, guerra, morte, devastazione, follia; è la sensazione di qualcosa che ci sta divorando dall'interno, come gli alieni dei film di fantascienza; oppure di qualcosa ce ci invade inesorabilmente come la nebbia del nulla del film "La storia infinita". Viviamo anche noi in tempi oscuri, forse addirittura più oscuri di quelli di Bertolt Brecht.

Il legame fra i nostri tempi e quelli degli anni trenta potrebbe essere assai più concreto di quanto non appaia dai vari sintomi esteriori. E' un legame che coinvolge le basi stesse della nostra civiltà, allora come oggi dipendente da oscure sostanze estratte dal cuore della terra. Il petrolio ai nostri tempi, il carbone ai tempi di Brecht.

Non molto tempo fa, ho scoperto quanto simile fosse la storia del carbone a quella del petrolio studiando l'andamento della produzione del carbone inglese. Quello che avevo scoperto leggendo le statistiche della "coal authority" erano i veri motivi della seconda guerra mondiale, cosa che ho descritto in un articolo sulla ASPO newsletter. Tutto mi è ritornato in mente con una piccola epifania di comprensione in questi giorni leggendo un vecchio libro trovato fra le carte di una zia, l "Almanacco della Donna Italiana" del 1941. E' una specie di messaggio in bottiglia arrivato da quei tempi ormai lontani che, tuttavia, sono uno specchio perfetto dei nostri.

Da questo almanacco, sembra che la vita di 66 anni fa non fosse molto diversa da quella di oggi. Ci sono articoli su cosa fare quando ci sono i muratori in casa, come allevare i figli; si parla di arte, di letteratura e di moda. Eppure, nel 1941, la guerra era diventata qualcosa che non si poteva più ignorare. Era una cosa che cominciava a mordere nella vita di tutti i giorni, specialmente dopo la dichiarazone di guerra all'Inghilterra e il disastro che era stato l'attacco alla Grecia nell'Ottobre 1940. Troviamo a pagina 203, dopo un articolo sulla pittura contemporanea e prima di uno sulla vendita a rate e su "come essere belle", un articolo intitolato "Anno XVIII." Qui, Ridolfo Mazzucconi, prolifico autore di testi patriottici del ventennio, spiega alle donne italiane le ragioni e l'andamento della guerra.

A distanza di quasi settanta anni dall'inizio della guerra, ci rimane ancora oggi misterioso come avvenne che l'11 Giugno 1940 l'Italia si risolse a dichiarare guerra a una nazione tradizionalmente alleata, l'Inghilterra, che in quel momento non minacciava minimamente l'Italia. In qualche modo, la cosa doveva avere una sua logica al di là della follia momentanea di un dittatore. Quello che leggiamo spesso nei libri di storia è che gli Italiani erano ancora offesi con gli alleati per come erano state spartite le spoglie della prima guerra mondiale nel 1919 a Versailles. Spiegazione che va indietro a vent'anni prima ed è un po' curiosa e inverosimile. Si può veramente fare una guerra per un litigio di vent'anni prima? Ancora più curioso è che Mazzucconi non nomina niente del genere; anzi menziona la "bella fratellanza" dell'Italia con l'Inghilterra degli anni 15-18.

Questo della "bella fratellanza" non è un concetto sbagliato. Inghilterra e Italia erano state veramente "sorelle" da quando l'Inghilterra aveva aiutato l'unificazione italiana al tempo di Garibaldi. Un po' era stato perché agli inglesi faceva comodo un contrappeso mediterraneo all'impero austro-ungarico, ma anche per una genuina simpatia per gli italiani e la rivoluzione italiana di quel tempo.

I rapporti stretti e amichevoli fra Inghilterra e Italia risalivano a ben prima. Risalivano all'inizio del secolo diciannovesimo, a quando l'Inghilterra aveva reso possibile la rivoluzione industriale italiana con le sue forniture di carbone. Erano state le carboniere inglesi a trasformare l'Italia da un insieme di staterelli agricoli a una nazione industriale. In un certo senso, nell'800 l'Italia era stata una colonia inglese, ma anche molto più di una colonia. Per gli Inglesi facoltosi, il viaggio in Italia da farsi in gioventù era diventato parte integrante della loro cultura; un viaggio alle origini della civiltà occidentale, della quale l'Italia manteneva ancora le vestigia. Lo si faceva ancora nel '900 e ci ricordiamo del bel libro di Forster "Camera con Vista" che descrive la vita degli Inglesi a Firenze nei primi anni del secolo. Qualche traccia di quelle abitudini rimane ancora ai nostri giorni.

Ma negli anni trenta del ventesimo secolo, le cose erano cambiate. Qualcosa si era rotto nel rapporto fra Italia e Inghilterra, fino ad allora idillico. Nel 1935, l'Italia invadeva l'Etiopia, sconvolgendo tutti gli equilibri locali e mondiali. Quale ventata di follia ha portato l'Italia a cercarsi un impero in un paese poverissimo che non aveva niente di utile per gli Italiani? Perché andarsi a mettere in diretto contrasto con l'Inghilterra, che era alleata dell'Etiopia? Comunque fosse, era il primo passo della strada che quattro anni dopo avrebbe portato a una follia ben peggiore: la dichiarazione di guerra all'inghilterra.

Forse era soltanto follia, o forse c'era un metodo in quella follia. E un certo metodo, c'era. Lo si trova descritto in poche righe del testo di Mazzucconi. Ecco l'epifania di cui parlavo (p. 205 dell' "Almanacco"):

(L'inghilterra ordinò) con provvedimento repentino la sospensione dell'inoltro di carbone tedesco a noi diretto via Rotterdam. In compenso, si offrì di sostituire la Germania nelle forniture di carbone: ma il servizio era subordinato a condizioni tali che accettarli sarebbe stato aggiogarsi al carro dell'interesse politico britannico e pregiudicare nel modo più grave la nostra preparazione bellica. Il governo fascista rispose con la dovuta bruscheria; e il carbone tedesco che non poteva più venire per mare trovò più comoda e breve la strada del Brennero.

Questa faccenda del carbone fu una salutare crisi chiarificatrice dell'orizzonte politico. Il 9 e il 10 Marzo
(1940), Ribbetrop era a Roma e la visita diede luogo a un affermazione netta e precisa. L'asse era intatto, l'alleanza fra Italia e Germania continuava. Qualche giorno dopo, il 18, Mussolini e Hitler si incontravano per la prima volta al Brennero e allora anche i ciechi furono obbligati a vedere e i corti di mente a capire.

Queste poche righe descrivono tutto il dramma dell'entrata in guerra dell'Italia contro l'Inghilterra. Teniamo conto che l'Italia dell'epoca, come quella di oggi, non aveva carbone e che, a quel tempo, il carbone era altrettanto, e forse più, vitale di quanto lo è oggi il petrolio. Senza carbone, gli Italiani non potevano sopravvivere e lo dovevano avere o dall'Inghilterra o dalla Germania; gli unici due produttori in grado di fornirglielo. E con l'Inghilterra e la Germania in guerra fra loro, l'Italia doveva fare una scelta.

Ma questi pochi giorni del 1940, dove si decise la sorte dell'Italia, furono solo il punto culminante di una storia del carbone che era cominciata molto prima. Abbiamo detto che l'industria italiana era stata creata dal carbone inglese. Che cosa era successo che aveva rotto il legame fra Italia e Inghilterra? Che cosa aveva reso l'offerta inglese di carbone nel 1940 "inaccettabile"?

A quell'epoca, si poteva pensare che fosse la perfidia degli albionici la ragione per la quale non ci volevano fornire il carbone e, invero, Mazzucconi è autore di un testo del 1935 intitolato "La Perfida Albione". Oggi, invece, abbiamo uno strumento intellettuale che ci permette di riconoscere che cosa era successo. Un concetto semplice: il picco del carbone. La produzione inglese aveva "piccato", ovvero raggiunto il suo limite produttivo, nei primi anni 20.

Il picco ci è più noto per il petrolio, dopo che Marion King Hubbert negli anni 50 aveva previsto quello del petrolio negli Stati Uniti. Ma la teoria di Hubbert vale altrettanto bene per il carbone, come pure per tutte le risorse minerali. Il picco è il risultato della conbinazione di fattori economici e geologici; via via che si estrae una risorsa questa diventa più cara da estrarre. A lungo termine, il sistema economico del paese estrattore non riesce più a continuare a espandere l'estrazione, che comincia a declinare, Ecco qui il picco del carbone inglese (da ASPO).Il massimo produttivo del carbone inglese fu nel 1913, a quel tempo in Italia se ne importarono quasi 10 milioni di tonnellate. Dopo quella data, le importazioni di carbone inglese scesero intorno intorno alle sei milioni di tonnellate negli anni venti, per poi precipitare negli anni trenta. Allo stesso tempo, le importazioni italiane di carbone dalla Germania aumentavano (da Walter H. Voskuil Economic Geography, Vol. 18, No. 3. (Jul., 1942), pp. 247-258.).

A parte la "appropriata bruscheria" del governo fascista che Mazzucconi ci descrive, gli eventi del 1940 non fecero che sancire la situazione di fatto. L'Inghilterra semplicemente non poteva rifornire l'Italia di carbone; né allo stesso prezzo né alle stesse condizioni della Germania che non aveva ancora raggiunto il suo picco di produzione. La scelta di Mussolini fu basata molto di più sul carbone che sull'ideologia. In un certo senso era una scelta logica, anche se di una logica perversa.

Ma, al tempo di Ridolfo Mazzucconi il concetto di picco di produzione non esisteva. La caduta delle importazioni in Italia fu attribuita alla perfidia inglese, proprio come, più tardi, la grande crisi del petrolio degli anni settanta fu attribuita alla perfidia degli sceicchi. Per Mazzucconi la guerra era il risultato di una "lotta rivoluzionaria" dei popoli dell'Asse contro "il basso istinto di conservazione" delle grandi potenze, la Francia e l'Inghilterra. Sempre secondo Mazzucconi, lo scopo della guerra è, alla fin dei conti far si che "il color verdolino chiaro col quale vengono segnati per convenzione cartografica i territori italiani" prenda il posto di "molto viola francese e di troppo arancione britannico"-

Oggi, ci è facile prendere in giro Mazzucconi, la sua perfida albione e il suo verdolino italiano che rimpiazzava il viola francese e l'arancione britannico. Lui, come tutti a quell'epoca vedeva il futuro oscuramente, come in uno specchio. Il suo futuro per noi è passato e la gioia insensata con cui Mazzucconi ci racconta di come le città inglesi erano "successivamente e razionalmente" sottoposte ad "azioni distruttive di apocalittica intensità" ci appare per quello che era; totale follia. Si immaginava Mazzucconi o qualcuno in Italia che quelle azioni distruttive di apocalittica intensità sarebbero ritornate al mittente e con gli interessi? Eppure, il nostro futuro ci è altrettanto ignoto di quello che per Mazzucconi era il futuro nel 1940. Non solo altrettanto ignoto, ma altrettanto e, forse più, inquietante; specialmente riguardo alle "azioni distruttive di apocalittica intensità"

"Davvero, viviamo in tempi oscuri" diceva Bertolt Brecht. Oggi, l'oscuro potere del carbone di allora è stato rimpiazzato dall'oscuro potere del petrolio. Brecht, il futuro l'aveva visto bene; come sarà il nostro?

Veramente io vivo in tempi oscuri!
La parola sincera è follia. Una fronte distesa
vuol dire insensibilità. Chi ride,
non ha ancora saputo
l’atroce notizia.

Che tempi sono questi, quando
un discorso sugli alberi è quasi un delitto,
perché evita di parlare delle troppe stragi?
E l’uomo che attraversa tranquillo la strada
potrà mai essere raggiunto dagli amici
che vivono nel pericolo?

È vero: io mi guadagno da vivere.
Ma, credetemi, è solo un caso. Niente
di quello che faccio mi autorizza a sfamarmi.
Mi risparmiano per caso. (Basta che il vento giri
e sono perduto.)

“Mangia e bevi” mi dicono “e sii contento di esistere”.
Ma come posso mangiare e bere, quando
quel che mangio lo strappo a chi ha fame
e il mio bicchiere d’acqua manca a chi ha più sete di me?
Eppure mangio e bevo




/

(da A quelli che verranno di Bertolt Brecht, 1938)

martedì 12 marzo 2013

Il picco del carbone in Gran Bretagna


Da “Cassandra's Legacy”. Traduzione di MR

Questo è un testo che ho pubblicato nel 2007 nel n° 73 della newsletter di ASPO. Ho pensato che fosse appropriato riprodurlo qui perché in un post recente ho menzionato la questione della politica italiana e delle importazioni di carbone dalla Gran Bretagna prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. E' un soggetto che avevo già toccato in questo vecchio studio. Quindi, eccolo, in generale ancora valido dopo diversi anni.


L'ANTENATO DEL PICCO DEL PETROLIO: IL PICCO DELLA PRODUZIONE BRITANNICA DI CARBONE NEGLI ANNI 20.
di Ugo Bardi - ASPO Newsletter n. 73


Figura 1. Produzione del carbone britannico dal 1815 al 2004. I dati dal 1815 al 1860 provengono da Cook e Stevenson, 1996. I dati dal 1860 al 1946 provengono da Kirby, 1977. I dati dal 1947 ai giorni nostri sono dell'Autorità Britannica per il Carbone (accesso del 2006). I dati della produzione sono misurati con una funzione Gaussiana che approssima la curva di Hubbert. 


Ci troviamo a pochi anni dal picco del petrolio, il momento in cui la produzione mondiale di petrolio inizierà un declino irreversibile. Cosa dovremmo aspettarci al picco e dopo? La storia non è una guida diretta, visto che non ci sono casi nel passato di una importante merce globale, come il petrolio, che abbia raggiunto il proprio picco.

Tuttavia, ci sono stati picchi regionali che hanno avuto effetti globali. Il caso più conosciuto è quello della produzione statunitense di petrolio che ha raggiunto il picco nel 1970 e che ha portato la prima grande crisi petrolifera negli anni seguenti. Ma quello non è stato il primo caso di una grande risorsa che ha raggiunto il picco per poi declinare. C'è stato un altro grande picco circa mezzo secolo prima: il Picco del Carbone in Gran Bretagna negli anni 20.

Il passato geologico ha lasciato alla Gran Bretagna una dote in carbone senza eguali in altre regioni europee. Lo sfruttamento è iniziato nel Medio evo e, già all'inizio del 18° secolo, l'industria del carbone ha cominciato una crescita esponenziale. Il carbone ha alimentato la rivoluzione industriale britannica ed era anche collegato al potere politico, permettendo alla Gran Bretagna di costruire il primo, e al momento unico, vero impero mondiale della storia.

L'importanza del carbone e difficile da sovrastimare. Durante il periodo di espansione dell'industria, un minatore britannico poteva produrre 250 tonnellate di carbone all'anno (Kirby 1977). Anche tenendo conto che circa il 20% doveva essere usato per estrarre più carbone, la produttività di un minatore di carbone, in termini energetici, era di cento volte più grande di quella di un lavoratore agricolo. Al culmine del proprio impero, la Gran Bretagna impegava più di un milione di minatori (Kirby 1977). Era la superpotenza del tempo, sfidata soltanto da altri stati produttori di carbone. Nella Prima Guerra Mondiale, il carbone britannico ha combattuto contro quello tedesco: ha vinto quello britannico.

Ma il carbone non poteva durare per sempre, anche per la ben dotata Gran Bretagna. Già a metà del 19° secolo, William Stanley Jevons aveva previsto, nel suo "La Questione del Carbone" (1856), che l'esaurimento avrebbe reso un giorno il carbone britannico troppo costoso per l'industria britannica. Jevons non espresse esplicitamente il concetto di "Picco del Carbone" ma, in senso qualitativo, la sua analisi era simile a quella di Marion King Hubbert per la produzione di petrolio negli Stati Uniti (Hubbert, 1956). E Jevons aveva ragione: il picco del carbone britannico è arrivato nel 1913, con 287 milioni di tonnellate. L'industria del carbone britannico ha lottato per mantenere la produzione ma non è riuscita più a raggiungere quel livello. Lo sforzo nell'industria è anche mostrato dai due scioperi generali dei minatori del 1921 e del 1926 che hanno causato un temporaneo crollo della produzione. La tendenza alla diminuzione è divenuta evidente negli anni 30 e non poteva essere fermata. La produzione britannica ha seguito una classica curva a campana in buon accordo col modello di Hubbert, con una distribuzione che da un picco nel 1923, solo 10 anni dopo il massimo effettivo. Oggi, la produzione di carbone in Gran Bretagna è meno di un decimo di quanto fosse al suo picco.

Il picco del carbone britannico è stato un punto di svolta nella storia. Mai prima di allora una grande regione produttrice di energia aveva iniziato a declinare. Ci sono analogie impressionanti fra il Picco del carbone britannico nel 1923 e il Picco del Petrolio americano del 1970. In entrambi i casi questi paesi stavano producendo al picco circa il 20% del totale mondiale. In entrambi i casi, le conseguenze mondiali sono state importanti. Prima del picco, la Gran Bretagna esportava circa il 25% della propria produzione interna e questa quantità era cresciuta esponenzialmente con la produzione. Dopo il picco, le esportazioni hanno iniziato a declinare causando una scarsità di carbone nel mercato mondiale. Nel caso degli Stati Uniti, le esportazioni di petrolio non erano importanti prima del picco. Ma, dopo il picco, le importazioni di petrolio statunitensi sono salite rapidamente, portando a loro volta ad una scarsità nel mercato mondiale.

Le scarsità di petrolio negli anni 70 hanno fatto salire i picchi dei prezzi causando la Grande Crisi Petrolifera. Un picco simile ha avuto luogo negli anni 20 per il carbone  (Governo Australiano, 2006) anche se è stato meno pronunciato. Molto probabilmente, il picco del carbone è stato meno brusco perché il controllo dei prezzi messo in atto durante la guerra è stato solo leggermente allentato negli anni 20. I prezzi del carbone si sono mantenuti alti negli anni 20, ma sono crollati col crollo del mercato nel 1929.

Molte regioni dell'Europa dipendevano dal carbone britannico, quindi la mancanza di carbone si è sentita ovunque. Diversi eventi che hanno seguito il picco del carbone britannico possono essere ricondotti alla riduzione della disponibilità di energia: il declino dell'Impero Britannico, la Grande Depressione degli anni 30, così come il sollevamento generale dell'Europa negli anni 20 e 30. I giornali italiani degli anni 20 e 30 sono pieni di insulti contro la Gran Bretagna perché non mandava il carbone all'Italia, carbone che gli italiani si sentivano in diritto di avere. Ciò riflette il tipo di atteggiamento che i paesi occidentali hanno adottato contro i produttori di petrolio del Medio Oriente negli anni 70. Ma, se il carbone britannico era in diminuzione negli anni 30, il carbone tedesco era ancora in aumento, il suo picco sarebbe arrivato solo negli anni 40. La Germania non ha mai prodotto tanta antracite, cioè la qualità migliore, quanto la Gran Bretagna, ma negli anni 30 aveva il vantaggio di poter ancora aumentare la produzione, mentre quello della Gran Bretagna stava declinando.

Negli anni 30, l'Italia ha abbandonato il suo tradizionale alleato, la Gran Bretagna, per la Germania, perché solo la Germania poteva fornire il carbone di cui aveva bisogno l'industria italiana ad un prezzo che gli italiani si potevano permettere. Solo più tardi si sarebbero resi conto che il prezzo del carbone tedesco sarebbe stato molto più alto di quanto sembrasse. Nel 1950, dopo il disastro della Seconda Guerra Mondiale, i problemi causati dal picco del carbone britannico sono stati risolti, per un po', passando al petrolio. Analogamente, dopo il trambusto della crisi petrolifera degli anni 70, i problemi causati dal picco del petrolio statunitense sono stati risolti, per un po', passando ad altre regioni produttive. In entrambi i casi, né il pubblico, né i politici, né gli economisti hanno visto le relazioni fra gli eventi politici ed economici del tempo, che erano legati al picco di petrolio e carbone.

Negli anni 30, sono stati scritti interi libri sul carbone (Neuman 1934), ma l'esaurimento mondiale difficilmente veniva citato. Nel 1977, Kirby ha scritto più di 200 pagine sulla storia dell'industria britannica del carbone durante il periodo del picco senza mai menzionare la questione dell'esaurimento. Apparentemente, non si riusciva ad afferrare il perché, mentre c'era ancora carbone da estrarre, la produzione declinava. Non capivano che non è la disponibilità fisica quella che conta, ma il costo di estrazione che aumenta col progressivo esaurimento. Era un concetto che Jevons aveva già capito circa un secolo prima, ma che non era sopravvissuto nell'economia dominante. Il caso del picco del petrolio statunitense è stato simile; il picco è stato generalmente ignorato dagli economisti, anche se Marion King Hubbert lo aveva previsto correttamente. Tutto ciò che è avvenuto dopo è stato attribuito a cause politiche. Entrambi i picchi sono stati dimenticati presto.

Oggi, è la produzione globale di petrolio che sta giungendo al picco. E' una cose che vediamo tutti, ma non è politicamente corretto dirlo. Il picco è un evento momentaneo, ma  accenna ad una realtà che gran parte della gente preferisce ignorare: il fatto che le risorse minerali sono finite. Possiamo ignorare anche il picco globale, proprio come gran parte della gente ha ignorato il picco del carbone britannico degli anni 20 e il picco del petrolio americano del 1970. Tuttavia, non saremo in grado di ignorarne gli effetti.

Bibliografia

Governo Australiano, Ministero del Tesoro, accesso del 2006
www.treasury.gov.au/documents/1042/HTML/docshell.asp?URL=02_Resource_commodities.asp

Autorità per il Carbone, accesso del 2006 www.coalminingreports.co.uk

Cook, C e Stevenson, J. 1996. The Longman Handbook of Modern British History, 1714-1995. Longman Terza edizione. Londra e New York: DOE 1993, DOE/EIA-0572 rapporto.

Hubbert, M.K. (1956). Energia nucleare e i combustibili fossili. Presentato prima dell'Incontro di Primavera del Southern District, Istituto Americano del Petrolio, Plaza Hotel, San Antonio, Texas, 7-8-9 marzo 1956

Kirby, M. W., 1977 The British Coalmining Industry, 1870-1946, The Macmillan Press Ltd, Londra e Birmingham.

Neuman A.M. 1934 Economic Organization of the British Coal Industry; Routledge ed..


domenica 10 marzo 2013

Il problema con la scienza del clima

Al punto in cui siamo arrivati, il problema della scienza del clima non è più tanto studiare l'atmosfera terrestre, ma studiare i meccanismi che rendono così difficile alla maggior parte degli esseri umani di capire la scienza del clima. La scienza del clima è veramente un campo interdisciplinare!

Qui di seguito, un filmato che illustra di un tentativo interessante in questo senso. Gli autori, Joe Brewer e Laszlo Karafiath, hanno usato il concetto di "meme" e hanno cercato di raccogliere tutte le forme ("memi") che il concetto di cambiamento climatico può prendere. Hanno trovato che, al momento, non esiste nessun meme efficace che possa diffondere il concetto di cambiamento climatico oltre il circa 5% della popolazione.

Vale la pena anche di leggere il loro rapporto a
http://www.slideshare.net/lazlomemes/global-warming-is-a-virus

(sottotitoli in italiano di Max Rupalti)