Visualizzazione post con etichetta emissioni CO2. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta emissioni CO2. Mostra tutti i post

venerdì 18 settembre 2015

Cambiamento climatico: ci salverà la crisi economica?

Dalla pagina FB di Bodhi Paul Chefurka. Traduzione di MR

Una delle cose interessanti del modo in cui l'economia funziona è che per fare un dollaro è sempre necessario consumare energia. E il consumo di energia (parlando globalmente) comporta il rilascio di CO2. Come abbiamo visto dall'inizio della Rivoluzione Industriale, man mano che l'economia mondiale cresce, le emissioni di CO2 seguono.

Il PIL mondiale potrebbe cominciare a scivolare? Questa probabilità sembra sempre maggiore. Le borse stanno crollando, man mano che i prezzi dei beni collassano, l'economia della Cina sta sprofondando, i rapporti del debito nel mondo stanno lievitando e le banche centrali sembrano aver finito gli strumenti incentivanti su larga scala. Ovviamente siamo a rischio di inversione economica globale, che potrebbe persino già essere in corso.

Sono stato per lungo tempo dell'opinione di recente condivisa dallo scienziato del clima Christopher Reyer, che è stato citato nell'articolo “Il collasso economico limiterà il cambiamento climatico, prevede uno scienziato del clima" quando dice, "Non siamo nemmeno sulla strada per i +6°C perché le economie collasseranno molto prima che ci arriviamo”.


Per cui ho deciso di fare un piccolo esperimento mentale. Cosa succederebbe alle emissioni di CO2 se il mondo entrasse in una depressione analoga alla Grande Depressione dei primi anni 30, ma in qualche modo più duratura? Come ogni buono scienziato amatoriale, comincio dichiarando le mie ipotesi in anticipo.

Ho cominciato con l'ipotesi chiave che l'intensità di CO2 del PIL (la quantità di CO2 emessa per ogni dollaro di PIL) rimarrebbe costante nel periodo della depressione, il che significa che il declino percentuale delle emissioni di CO2 sarebbe lo stesso di quello del PIL.

Quell'ipotesi iniziale si basa sull'ipotesi sottesa: i fattori che in passato hanno ridotto l'intensità di carbonio del PIL – come l'accumulo di energia rinnovabile e il passaggio a livello mondiale verso le economie dei servizi – non saranno più in gioco. Gli investimenti in nuovi impianti di produzione di energia si fermeranno, in quanto non serviranno più e il mondo sarà troppo occupato a cercare di sopravvivere per preoccuparsi di creare più posti di lavoro in servizi finanziari e nell'arredamento di interni.

Lo scenario si dipana così: ho immaginato che il mondo cade in una depressione che inizia praticamente come la Grande Depressione, con tre anni di scivolamento del PIL a doppia cifra. Questo salto è seguito da una tentata ripresa che recupera un po' di campo economico per un anno o due, dopo di che si insedia una discesa economica più graduale ma di maggior durata, che si dipana man mano che si avvicina il 2030.

Nella mia immaginazione il ripido scivolamento economico inizia il prossimo anno, con tre anni consecutivi di declino del PIL mondiale del 11% – più o meno quello che il mondo ha vissuto dal 1929 al 1932. Quei declini sono seguiti da un anno di ripresa e da un anno di paralisi da far strabuzzare gli occhi. Dopo il 2020, comincia lo scivolamento più lungo e lento. Comincia col 5% all'anno e si riduce gradualmente a declini del 2% all'anno verso la fine del decennio. Ogni anno, le emissioni di CO2 scendono della stessa percentuale del PIL.

Ecco come si presenta l'evento in numeri:


Nel 2030, il mondo emetterebbe solo la metà del CO2 che emette oggi – circa la stessa quantità che emetteva nel 1977. Ciò avverrebbe senza alcuna necessità di investimenti in energie rinnovabili o nucleare e senza la necessità di alcun accordo internazionale. Naturalmente, a quel punto il PIL mondiale sarebbe declinato a sua volta della metà...

Ora, questo non è un piano o una proposta. E' solo una descrizione di quello che accadrebbe durante un declino economico simile a quello che abbiamo già vissuto in un passato non troppo lontano.

A differenza delle conferenze internazionali sul clima “estendi-e-fingi”, o le pie illusioni dei sostenitori delle energie rinnovabili, questo processo è garantito che funzioni. Ed un rapido sguardo alle borse di azioni, obbligazioni e beni proprio in questo momento suggerisce che le possibilità che questo accada in realtà sono piuttosto buone.

Forse c'è qualche speranza, dopotutto, per la biosfera...


giovedì 30 aprile 2015

Cambiamento climatico:l'effetto Seneca può salvarci?

Da “Resource Crisis”. Traduzione di MR

Di Ugo Bardi




Il “Dirupo di Seneca” (o “Collasso di Seneca”). L'antico filosofo Romano disse che “La strada dell'ascesa è lenta, ma quella della rovina è rapida”. Un Collasso di Seneca” dell'economia mondiale ridurrebbe sicuramente le possibilità di un disastro climatico, ma sarebbe un grande disastro in sé e potrebbe anche non essere sufficiente. 

Niente di ciò che facciamo (o cerchiamo di fare) sembra essere in grado di fermare l'accumulo di biossido di carbonio in atmosfera. E, di conseguenza, niente sembra essere in grado di fermare il cambiamento climatico. Con la situazione che peggiora in continuazione (guardate qui, per esempio), siamo a sperare che un qualche tipo di accordo internazionale per limitare le emissioni possa essere raggiunto. Ma, dopo molti tentativi e molti fallimenti, possiamo davvero aspettarci che la prossima volta, miracolosamente, possiamo avere successo?

Un'altra linea di pensiero, invece, sostiene che l'esaurimento ci salverà. Dopotutto, se finiamo il petrolio (e i combustibili fossili in generale) dovremo smettere di emettere gas serra. Questo non risolverà il problema? In linea di principio sì, ma succederà?

Il nocciolo del dibattito sull'esaurimento dei combustibili fossili è che, nonostante le risorse teoricamente abbondanti, il tasso di produzione è fortemente condizionato da fattori economici. Questi fattori costringono normalmente la curva di produzione a seguire una forma “a campana”, o “di Hubbert”, che raggiunge il picco e comincia a declinare molto prima che le risorse finiscano in senso fisico. In pratica, gran parte degli studi che tengono conto del fenomeno del “picco” giungono alla conclusione che gli scenari del IPCC spesso sovrastimano la quantità di carbonio fossile che si può bruciare (vedete questa recente rassegna di Hook et al.). Da questo, alcuni sono giunti alla conclusione ottimistica che il picco del petrolio ci salverà dal cambiamento climatico (vedete questo mio post). Ma questo è troppo semplicistico.

Il problema del cambiamento climatico non è che le temperature continueranno a crescere dolcemente da adesso alla fine del secolo. Il problema è che ci troveremo in grossi guai molto prima se lasciamo aumentare le temperature oltre un certo limite. Aumento del livello del mare, acidificazione dell'oceano e desertificazione sono soltanto alcuni dei problemi, ma uno peggiore potrebbe rivelarsi il “punto di non ritorno climatico”. Cioè che, oltre un certo punto, l'aumento delle temperature comincia ad essere alimentato da una serie di effetti di retroazione interni all'ecosistema e il cambiamento climatico diventerebbe inarrestabile.          

Non sappiamo dove possa essere situato il punto di non ritorno climatico, ma c'è un consenso sul fatto che dobbiamo impedire che le temperature aumentino oltre un certo limite. Spesso il livello di 2°C è considerato il limite per evitare la catastrofe. Grazie al saggio del 2009 di Meinshausen et al. possiamo stimare che, da ora in avanti, non dobbiamo rilasciare più di circa 1x10+12 t di CO2 nell'atmosfera. Considerando che finora abbiamo rilasciato circa 1,3x10+12 t di CO2 (fonte: global carbon project), il totale non deve essere più di circa 2,3x10+12 t di CO2.

Cosa possiamo aspettarci quindi in termini di emissioni totali considerando uno scenario di “picco”? Lasciate che vi mostri alcuni dati di Jean Laherrere, che è stato fra i primi a proporre il concetto di “picco del petrolio”.


In questa figura, fatta nel 2012, Laherrere elenca le quantità di combustibili bruciate, con una “U” ("ultimate"), misurate in Tboe (Terabarrels of oil equivalent, vedete più in fondo i fattori di conversione usati). Come prima approssimazione, se tutte le emissioni fossero da petrolio greggio, emetteremmo 4,5x10+12 t di CO2. Le cose cambiano un po' se separiamo i contributi dei tre combustibili fossili. Il petrolio greggio, da solo, produrrebbe 1,3x10+12 t di CO2. Il carbone produrrebbe 2,8x10+12 t e il gas naturale 0,95x10+12 t. Il risultato finale è quasi esattamente  5x10+12 t di CO2.

In breve, anche se seguiremo una traiettoria di “picco” nella produzione di combustibili fossili, emetteremo circa due volte il biossido di carbonio di quello che al momento è considerato essere il limite “di sicurezza”.

Naturalmente, ci sono moltissime incertezze in questi calcoli e il punto di non ritorno potrebbe essere più lontano di quanto stimato. Ma potrebbe anche essere più vicino. A dobbiamo tenere conto del problema dell'aumento delle emissioni di CO2 per unità di energia man mano che progressivamente passiamo a combustibili più sporchi e meno efficienti. Così, stiamo davvero giocando col disastro, con una buona possibilità di correre dritti in una catastrofe climatica.

Ciononostante, potrebbe anche essere che Laherrere fosse ottimista nella sua stima. Infatti, la curva quasi simmetrica “a campana” o “di Hubbert” è il risultato dell'ipotesi che l'estrazione venga eseguita in un'economia pienamente funzionante. Ma, una volta che il sistema economico comincia a disfarsi, una serie di retroazioni distruttive accelerano il declino. Si tratta del “Collasso di Seneca” che genera una curva di produzione asimmetrica “il “Dirupo di Seneca”).

Il dirupo di Seneca ci può salvare? Perlomeno ridurrebbe considerevolmente la quantità di carbonio fossile bruciato. A titolo di prova, se il collasso dovesse cominciare entro i prossimi 10 anni e dovesse tagliare più della metà della produzione potenziale di carbone, allora potremmo rimanere entro il limite di sicurezza. Laddove Hubbert non può salvare l'ecosistema, Seneca potrebbe (forse).

Ma, anche se ciò dovesse avvenire, un collasso di Seneca è un grande disastro in sé per l'umanità, quindi c'è poco di cui rallegrarsi al pensiero che potrebbe salvarci dal cambiamento climatico fuori controllo. In pratica, la sola speranza di evitare il disastro sta nell'assumere un ruolo più attivo nel sostituire i fossili con le rinnovabili. In questo modo, possiamo costringere la produzione di combustibili fossili a diminuire più rapidamente, ma senza perdere la fornitura energetica di cui abbiamo bisogno. E' possibile – è un grande sforzo, ma possiamo farlo se siamo disposti a provarci (vedete questo saggio di Sgouridis, Bardi e Csala per una stima quantitativa dello sforzo necessario).
____________________________________

Unità di conversione

Un Boe di petrolio greggio = 0,43 t CO2 (http://www.epa.gov/cleanenergy/energy-resources/refs.html)

Un Boe di carbone = 0,53 t CO2 (calcolo da https://www.unitjuggler.com/convert-energy-from-Btu-to-boe.html?val=1000000 e da http://www.epa.gov/cpd/pdf/brochure.pdf)

Un Boe di gas naturale: 0,31 t CO2 (calcolo da https://www.unitjuggler.com/convert-energy-from-Btu-to-boe.html?val=1000000 e da http://www.epa.gov/cpd/pdf/brochure.pdf)

mercoledì 18 giugno 2014

Michael Klare: cosa si fuma Big Energy?

DaTomdispach”. Traduzione di MR


 “La posizione dell'industria era che non ci sono “prove” che il tabacco facesse male ed hanno promosso quella posizione creando un “dibattito”, convincendo i mass media che i giornalisti responsabili avevano il dovere di presentare 'entrambe le parti' dello stesso”. Usando un pugno di scienziati come propri testimoni esperti, le grandi compagnie del tabacco hanno anche negato la scienza che collega fumo e cancro ed hanno dichiarato che le scoperte anti tabacco erano guidate da un piano politico. Usando marchi pubblicitari, gruppi di pensiero e quegli scienziati “obbiettivi” da loro pagati o asserviti, hanno messo i loro soldi dove si trovavano le loro bocche ed hanno finanziato una massiccia campagna di ciò che, col senno di poi, può essere chiamata solo disinformazione sugli effetti del fumare tabacco sulla salute umana. In questo senso, hanno creato il dubbio e il dibattito che volevano, posticipando con successo una resa dei conti dell'industria per anni.

Suona familiare oggi? Dovrebbe. Come hanno documentato Naomi Oreskes e Erik Conway nel loro classico Mercanti di dubbio, seminare il dubbio nella controversia delle sigarette si è rivelata una mossa brillante. I due autori la chiamano “la strategia del tabacco”. Ha avuto così successo per le compagnie del tabacco che sarebbe stata imitata e replicata in situazioni simili come la pioggia acida, il buco dell'ozono e alla fine il riscaldamento globale, un “dibattito” ancora in corso e, come chiariscono Oreskes e Conway, con lo stesso ridotto cast di scienziati dubbiosi, che si sono spostati per convenienza da un problema a quello successivo (senza fare un lavoro originale di proprio), finendo fra la fila dell'industria dei combustibili fossili. E' una storia di uomini che rappresentano intere industrie che sono ripetutamente finiti dalla parte sbagliata della scienza. Sugli effetti del tabacco, della pioggia acida e delle sostanze chimiche che distruggono lo strato di ozono, hanno notoriamente sbagliato eppure, per le industrie che li hanno sostenuti, avevano notoriamente ragione. E' sufficientemente chiaro come il quarto di questi “dibattiti” sul cambiamento climatico sarà deciso. La domanda è solo quando – e da questa domanda dipende la salute umana su scala globale.

Nel frattempo, 'Big Energy' non ha mai smesso di imparare dal successo di 'Big Tobacco'. Come rivela oggi l'editorialista abituale di TomDispatch Michael Klare, autore di La competizione per ciò che è rimasto, si stanno ancora una volta adattando e stanno sfruttando la strategia ultima dell'industria del tabacco in un modo nuovo e devastante. Non c'è storia più vergognosa e nessuno l'ha raccontata – finora. Tom.

Che mangino carbonio. In che modo Big Tobacco e Big Energy puntano sul mondo in via di sviluppo come futuro obbiettivo per fare profitti

Di Michael T. Klare

Negli anni 80, incontrando restrizioni normative e resistenza pubblica al fumo negli Stati Uniti, le grandi compagnie del tabacco hanno inventato una strategia particolarmente efficace per sostenere i propri livelli di profitto: vendere più sigarette nel mondo in via di sviluppo, dove la domanda era forte e le leggi anti tabacco deboli o inesistenti. Ora, le grandi compagnie energetiche stanno prendendo esempio da Big Tobacco. Mentre la preoccupazione per il cambiamento climatico comincia a ridurre la domanda di combustibili fossili negli Stati uniti e in Europa, stanno accelerando le proprie vendite ai paesi in via di sviluppo, dove la domanda è forte e le misure di controllo delle emissioni di carbonio climalteranti deboli o inesistenti. Questo produrrà un aumento colossale delle emissioni di carbonio climalteranti che non li preoccupa di più i quanto il balzo delle malattie legate al fumo avesse preoccupato le compagnie del tabacco.

Lo spostamento dell'industria del tabacco dai paesi ricchi e sviluppati ai paesi a salario medio-basso è stato ben documentato. “Con l'uso del tabacco che declina nei paesi più ricchi, le compagnie del tabacco stanno spendendo decine di miliardi di dollari all'anno in pubblicità, e sponsorizzazioni, gran parte delle quali per aumentare le vendite nei... paesi in via di sviluppo, “ ha osservato il New York Times in un editoriale del 2008. Per incrementare le loro vendite, marchi come Philip Morris International e British American Tobacco hanno anche portato il loro peso legale e finanziario a sostenere il blocco dell'attuazione dei regolamenti anti fumo in quei luoghi. “Stanno usando le cause per minacciare i paesi salario medio-basso”, ha detto al NYTimes il dottor Douglas Bettcher, capo della Iniziativa per la Liberazione dal Tabacco dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.

Le compagnie di combustibili fossili – produttori di petrolio, carbone e gas naturale – stanno espandendo le loro operazioni in modo analogo in paesi a reddito medio basso dove assicurare la crescita delle forniture energetiche è considerato più cruciale che non prevenire la catastrofe climatica. “C'è un chiaro passaggio a lungo termine della crescita energetica dai paesi OCSE [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, il club delle nazioni ricche] a quelli non OCSE”, ha osservato il gigante petrolifero BP nel suo rapporto sulla Prospettiva Energetica per il 2014. “Virtualmente tutta (95%) la crescita prevista [del consumo di energia] è nei paesi non OCSE”, ha aggiunto, usando il nuovo termine garbato per ciò che veniva chiamato Terzo Mondo.

Come nel caso della vendita di sigarette, l'aumento della consegna di combustibili fossili ai paesi in via di sviluppo e doppiamente dannosa. Il loro essere presi di mira da Big Tobacco ha prodotto un forte aumento delle malattie collegate al fumo fra i poveri in luoghi in cui i sistemi sanitari sono particolarmente mal equipaggiati per chi si trova ad averne bisogno. “Se l'attuale tendenza continua”, ha riportato l'OMS nel 2011, “entro il 2030 il tabacco ucciderà più di 8 milioni di persone nel mondo all'anno, con l'80% di queste morti premature fra le persone che vivono in paesi dai redditi medio-bassi”. In un modo analogo, un aumento delle vendite di carbonio a tali nazioni aiuterà a produrre tempeste più forti e siccità più lunghe e devastanti in luoghi che sono meno preparati a resistere o ad affrontare i pericoli del cambiamento climatico.

La crescente enfasi dell'industria energetica sulle vendite a queste terre particolarmente vulnerabili è evidente nella pianificazione strategica di ExxonMobil, la più grande compagnia petrolifera privata. “Per il 2040, si prevede che la popolazione mondiale cresca approssimativamente fino a 8,8 miliardi di persone”, ha osservato la Exxon nel suo rapporto finanziario del 2013 agli azionisti. “Visto che le economie e le popolazioni crescono e gli standard di vita migliorano per miliardi di persone, la necessità di energia continuerà ad aumentare... Questo aumento della domanda è previsto essere concentrato nei paesi in via di sviluppo”.

Questa valutazione, ha spiegato l'AD della Exxon Tillerson, governerà i piani commerciali della compagnia negli anni a venire. “Il contesto economico globale continua a fornire una miscela di sfide e opportunità”, ha detto l'analista finanziario alla Borsa di New York nel marzo 2013. Mentre la domanda di energia nelle economie sviluppate “rimane relativamente piatta”, ha osservato, “la domanda di energia delle economie dei paesi non OCSE è attesa in crescita di circa il 65% per sostenere l'attesa prevista”.

A riconoscimento di questa tendenza, la Exxon ha intrapreso un'ampia varietà di iniziative intese ad aumentare le proprie capacità di vendita in Cina, Sudest Asiatico ed altre aree in rapido sviluppo. A Singapore, per esempio, la compagnia sta ampliando una raffineria ed un impianto petrolchimico che costituisce il suo “più grande sito integrato di produzione nel mondo”. La raffineria è stata modificata per produrre più gasolio, di modo da servire meglio le flotte di camion, autobus ed altri veicoli pesanti nella regione. Nel frattempo, l'impianto di lavorazione degli idrocarburi nell'impianto chimico è stato raddoppiato per soddisfare l'aumento della domanda di prodotti petrolchimici usati per fare plastiche ed altri beni di consumo, specialmente in Cina. (Ci si attende che la Cina da sola rappresenti oltre metà della crescita della domanda mondiale” di questi prodotti, ha osservato Tillerson lo scorso anno).

Per promuovere i propri prodotti in Cina, la Exxon ha stabilito una “alleanza strategica” con la China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec), uno dei giganti energetici cinesi di proprietà del governo. Un obbiettivo chiave dell'alleanza è la costruzione di una “raffineria integrata su scala mondiale e di un complesso petrolchimico” nella Cina orientale che, hanno osservato i funzionari Exxon, “diventerà un grande rivenditore di prodotti petrolchimici in tutta la Cina e di prodotti petroliferi nella provincia di Fujian. Una grande componente di questo sforzo congiunto, il progetto per la raffinazione e la produzione di etilene integrati di Fujian, è cominciato nel settembre 2009.

La Exxon sta anche espandendo le proprie capacità di fornire gas naturale liquefatto (GNL) all'Asia. In collaborazione con Qatar Petroleum, ha costruito il più grande impianto per l'esportazione di GNL del mondo a Ras Laffan in Qatar e sta costruendo un'enorme operazione di GNL in Papua Nuova Guinea. Questo progetto da 19 miliardi di dollari, diventato operativo da aprile, comprende un gasdotto di 430 miglia per consegnare gas dagli altipiani interni dell'isola ad un terminal di esportazione vicino a Port Moresby, la capitale. “Il progetto è ottimamente localizzato per servire i mercati asiati in crescita in cui la domanda di GNL è attesa in crescita di circa il 165% fra il 2010 e il 2025”, ha detto Neil W. Duffin, presidente dell'Azienda di Sviluppo della ExxonMobil.

La prossima cosa nel programma della compagnia è in piano per attingere dal gas naturale che viene estratto in quantità sempre maggiori dalle formazioni di scisto interne degli Stati Uniti attraverso l'idrofratturazione e convertirlo in GNL da esportare in Asia. Anche se vari politici americani hanno spinto l'esportazione strategica di tali forniture all'Europa per “salvare” quel continente dalla propria dipendenza dal gas russo, la Exxon ha altre idee. Vede l'Asia, dove i prezzi del gas sono più alti, come il mercato naturale del GNL – e si fotta la politica estera degli Stati Uniti. “Esportando gas naturale”, ha detto Tillerson alla Società Asiatica nel giugno 2013, “gli Stati Uniti potrebbero consolidare la sicurezza energetica degli alleati asiatici e dei partner commerciali e stimolare l'investimento della produzione interna americana”.

La missione “Umanitaria” di Big Energy

Promuovendo tali politiche, i dirigenti della Exxon sono attenti a riconoscere che le preoccupazioni crescenti sul cambiamento climatico stanno generando una maggiore resistenza al consumo dei combustibili fossili in Europa e in altre del Primo Mondo. Quando si tratta del resto del pianeta, tuttavia, tali preoccupazioni, sostengono, dovrebbero essere controbilanciata da un impulso “umanitario” a fornire energia fossile a buon mercato alla gente povera. Attingendo agli argomenti del rinnegato ambientale danese Bjørn Lomborg, autore de “L'ambientalista scettico”, sostengono che tendere ai bisogni dei poveri costituisce una priorità maggiore che non frenare il riscaldamento globale. “Dobbiamo anche riconoscere che c'è un imperativo umanitario nel soddisfare queste necessità globali crescenti”, ha tipicamente asserito Tillerson nel 2013.

Alla domanda se il riscaldamento globale non debba essere una preoccupazione più grande, l'AD di Exxon ha ripetuto a pappagallo la prospettiva anti-ambientalista di Lomberg. “Penso che ci siano molte più priorità stringenti con le quali... dobbiamo confrontarci”, ha detto Tillerson al Consiglio per le relazioni Estere nel giugno 2012. “Ci sono ancora centinaia di milioni, miliardi di persone che vivono in una povertà abietta nel mondo. Hanno bisogno di elettricità... Hanno biosgno di combustibile per cucinare il loro cibo che non sia sterco di animale... A loro piacerebbe bruciare combustibili fossili perché la loro qualità di vita aumenterebbe incommensurabilmente, la qualità della loro salute, la salute dei loro figli e il loro futuro aumenterebbero incommensurabilmente. Si salverebbero milioni e milioni di vite rendendo i combustibili fossili maggiormente disponibili a gran parte del mondo che non li ha”.

Anche se i leader della altre grandi ditte, comprese BP, Chevron e Royal Dutch Shell, sono meno dirette di Tillerson, stanno perseguendo una strategia di mercato analoga. “La crescita della domanda [di prodotti petroliferi] proviene esclusivamente da economie non OCSE in rapida crescita”, ha osservato la BP nel suo recente rapporto sulla prospettiva energetica globale. Cina, India e Medio Oriente costituiscono quasi tutto l'aumento globale”. Come ExxonMobil, BP e le altre duramente al lavoro per espandere la loro capacità di vendere combustibili fossili in questi mercati in crescita.

E non sono solo le compagnie di petrolio egas che perseguono questa strategia. Lo fa anche 'Big Coal'. Con la domanda di carbone in declino negli Stati uniti, grazie alla crescente disponibilità di gas naturale a basso costo generata dal fracking, le ditte di carbone stanno spedendo sempre di più della loro produzione in Asia, cosa che contribuirà significativamente ad incrementare lì le emissioni. Secondo la EIA del Dipartimento per l'Energia, le esportazioni di carbone statunitense verso la Cina sono aumentate da praticamente zero nel 2007 a 10 milioni di tonnellate nel 2012. Le esportazioni verso l'India sono aumentate da 1,5 milioni a 7 milioni di tonnellate e verso la Corea del Sud da praticamente niente a 9 milioni. Le esportazioni a questi paesi solamente è aumentata di più del 1000% in questi anni.

La EIA riassume la situazione così: “Le compagnie nelle zone chiave dell'approvvigionamento di carbone negli Stati Uniti – sia produttori sia ferrovie – hanno aumentato le vendite verso l'Asia a causa dell'aumento della domanda di carbone asiatica, forti prezzi di esportazione complessivi e minor consumo degli Stati Uniti di carbone per produrre energia elettrica”. Visto da un'altra prospettiva, le diminuite emissioni di carbonio dal carbone negli Stati Uniti – tanto propagandate dal presidente Obama nel suo abbracciare il gas naturale – non ha significato quando si tratta di cambiamento climatico, a causa dei gas serra prodotti quando tutto quel carbone viene consumato in Asia.

Per aumentare ancor di più le vendite, le grandi compagnie di carbone promuovono la costruzione di nuovi terminal di spedizione sulla costa occidentale, comprese le due in Oregon e le due nello stato di Washington. La più grande di queste, il Gateway Pacific Terminal vicino a Bellingham, Washington, gestirà fino a 48 milioni di tonnellate di carbone all'anno, gran parte del quale destinato alla Cina ed altri paesi asiatici.

Anche se i terminal vengono spesso promossi dai funzionari locali come fonti di nuovi lavori, innescano una dura opposizione da parte degli attivisti della comunità e dai Nativi Americani che le vedono come una grave minaccia all'ambiente. Dichiarando che la polvere di carbone, le perdite dai treni e gli impianti di carico danneggeranno i siti di pesca che ritengono vitali, membri della tribu Lumni citano diritti trattati da lungo tempo nei loro tentativi di bloccare il Terminal di Cherry Point, uno degli impianti pianificati nello stato di Washington.

Nel Pacifico nordoccidentale, l'opposizione ai terminal del carbone e alle linee ferroviarie che saranno così cruciali per il loro funzionamento – alcune delle quali attraverseranno riserve indiane e passeranno attraverso città dall'atteggiamento verde come Seattle – sta prendendo forza. Il processo è stato simile al modo in cui gli attivisti del clima si sono mobilitati contro l'oleodotto Keystone XL che, se costruito, è previsto che trasporti sabbie bituminose dense di carbonio dal Canada alla Costa del Golfo degli Stati Uniti. Ma le compagnie del carbone e i loro alleati stanno spingendo, insistendo che le loro esportazioni sono essenziali per la vitalità economica del paese. “A meno che i porti non vengano costruiti sulla costa occidentale”, ha detto Jason Hayes, un portavoce del Consiglio Americano del Carbone, i fornitori statunitensi non saranno visti come 'partner d'affari affidabili' in Asia.

Anche se l'opposizione della comunità e tribale potrebbe avere successo nel bloccare o ritardare un terminal o due, gran parte degli analisti che che, alla fine, diversi ne verranno costruiti. “Ci sono due miliardi di persone in Asia che hanno bisogno di più corrente, quindi alla fine nei mercati finirà più carbone statunitense “, dice Matt Preston, un analista della ditta di consulenza energetica di Wood Mackenzie.

Perpetuare l'era dei combustibili fossili

Alla fine, tutti questi tentativi di aumentare le vendite di combustibili fossili in Asia e in altre aree in via di sviluppo avrà un risultato inequivocabile: un forte aumento delle emissioni globali di carbonio, con gran parte della crescita nei paesi non OCSE. Secondo la EIA, fra il 2010 e il 2040 le missioni mondiali di carbonio provenienti dall'uso di energia – la fonte principale di gas serra - aumenteranno del 46%, da 31,2 miliardi di tonnellate a 45,5 miliardi di tonnellate. Poco di questo aumento verrà ufficialmente generato dai paesi più ricchi del pianeta, dove la domanda di energia è stagnante e vengono approvate regole più severe sulle emissioni di carbonio. Invece, quasi tutta la crescita del CO2 in atmosfera – il 94% - sarà lasciato al mondo in via di sviluppo, anche se una parte significativa di quelle emissioni proverrà dalla combustione di combustibili fossili statunitensi esportati.

Dal punto di vista di molti scienziati, un aumento delle emissioni di carbonio di questa scala porterà quasi sicuramente ad un aumento della temperatura globale di almeno 4°C e probabilmente di più per la fine del secolo. E' abbastanza da assicurare che i cambiamenti che stiamo già vedendo, comprese le gravi siccità, le tempeste più forti, gli incendi e l'aumento dei livelli del mare, saranno eclissati da pericoli esponenzialmente più grandi in futuro.

Condivideremo tutti il dolore di tali catastrofi indotte dal riscaldamento. Ma le persone nelle terre in via di sviluppo – specialmente le più povere fra loro – soffriranno di più, perché le società in cui vivono sono meno preparate ad affrontare gravi catastrofi. “I pericoli collegati al clima peggiorano altri fattori di stress [socioeconomico], spesso con conseguenze negative per i mezzi di sussistenza, specialmente per le persone che vivono in povertà”, ha osservato l'IPCC nella sua più recente valutazione di ciò che il riscaldamento globale significherà per il pianeta Terra. “I pericoli collegati al clima colpiscono le vite della persone povere direttamente, attraverso l'impatto sui mezzi di sussistenza, la riduzione dei rendimenti agricoli e la distruzione di case e indirettamente attraverso, per esempio, l'aumento dei prezzi del cibo e l'insicurezza alimentare”.

Di certo, le grandi compagnie di combustibili fossili hanno una responsabilità morale, se non anche una legale, per l'intensificazione del cambiamento climatico e la mancanza di una risposta seria ad esso. Oltre a questo, il loro pianificare con cura una strategia per vendere prodotti di carbonio a coloro che sono più a rischio può essere solo vista come completa immoralità. Proprio come i funzionari della sanità ora condannano l'enfasi di Big Tobacco sulla vendita di sigarette alle persone povere in paesi con un inadeguato sistema sanitario, così un giorno la nuova abitudine “di fumare” di Big Energy sarà ritenuta una enorme minaccia alla sopravvivenza umana.

Soprattutto, Big Energy sta assicurando che una piccola parentesi di buone notizie per quanto riguarda il cambiamento climatico – la contrazione dell'uso di carbone, petrolio e gas nel mondo sviluppato – si rivelerà insignificante. L'incentivo economico a vendere combustibili fossili ai paesi in via di sviluppo e innegabilmente forte. Il bisogno di maggiore energia nei paesi in via di sviluppo non è meno indiscutibile. Nel lungo periodo, il solo modo di soddisfare questi bisogni senza mettere in pericolo il nostro futuro globale sarebbe attraverso una spinta enorme ad espandere le opzioni di energia rinnovabile lì, non spingendo prodotti di carbonio nelle loro gole. Rex Tillerson e le sue coorti continueranno a dichiarare che stanno dando un servizio “umanitario” con la loro nuova strategia del “tabacco”. Invece, stanno di fatto perpetuando l'era dei combustibili fossili e contribuendo a creare una futura catastrofe umanitaria di dimensioni apocalittiche.

Michael T. Klare, una presenza regolare su TomDispatch, è un professore di studi di pace e sicurezza mondiale al Hampshire College ed è autore, più di recente, de “La competizione per ciò che è rimasto”. Un versione sotto forma di documentario del suo libro “Sangue e petrolio” è disponibile su the Media Education Foundation.