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martedì 21 aprile 2015

La maledizione delle miniere. Da Nauru alle Apuane

 Di Jacopo Simonetta  




Il film Rapa Nui ed i libri di Jared Diamond hanno reso celebre la triste storia dell’Isola di Pasqua, spesso citata come un modello di quello che potrebbe accadere, su di una diversa scala temporale, all'intero pianeta Terra.

Certo, la possibilità di verificare su casi reali le dinamiche evolutive dei sistemi socio-economico-ambientali è vitale per capire cosa sta succedendo oggi nel mondo.

In fondo, sistemi piccoli e grandi sono soggetti alle medesime leggi fisiche ed ecologiche, ma occorre prudenza nell'estrapolazione dei risultati.   Sistemi più grandi sono, infatti, anche più complessi e dispongono di maggiori riserve, per cui non si comportano mai esattamente come i sistemi relativamente più semplici che possiamo studiare in dettaglio.   Una parte importante dell’evoluzione dei sistemi dipende dal loro livello di complessità, ancor più che dalla loro natura.

Tuttavia, la disponibilità di “casi di studio” relativamente semplici rimane una delle maggiori risorse per capire dinamiche specifiche ed è per questo che vorrei qui proporre un altro esempio, assai meno famoso, eppure ancor più istruttivo di quello dell’Isola di Pasqua. Si tratta infatti di una storia contemporanea che riguarda uno stato riconosciuto ed organizzato come gli altri: con bandiera, governo, parlamento, banca centrale e tutto il resto, compreso un seggio all’ONU.   Però in scala: la superficie dello stato è di circa 21 Kmq e la popolazione circa 14.000 persone. Stiamo parlando dell’isola di Nauru. Una storia che trovo particolarmente interessante perché emblematica di molte dinamiche economiche, sociali ed ecologiche correlate con l’industria mineraria in tutte le parti dal mondo.

Scoperta nel 1798 dagli inglesi, fu battezzata nientemeno che “Pleasant Island”.   All'epoca c’erano forse un migliaio di persone, organizzate in dodici clan che riconoscevano l’autorità di un unico capo. Le attività principali erano coltivare una terra particolarmente fertile e pescare sulla barriera corallina, che circonda interamente l’isola. Nel corso del secolo seguente, Nauru passò rapidamente di mano fra varie potenze coloniali che non sapevano che farsene, ma non senza conseguenze.  La disponibilità di armi moderne, avute in scambio dai navigatori che vi facevano scalo, fu infatti all'origine della guerra civile che, nel 1870, spazzò via buona parte della popolazione.

Nel 1900 le cose cambiarono. Il geologo Albert Ellis scoprì che l’isola era ricchissima di fosfati, un minerale strategico sia per l’agricoltura che per l’industria chimica. Certo, l’escavazione ed il trasporto erano molto problematici, ma lo sfruttamento minerario dell’isola comunque iniziò e proseguì sempre, anche durante l’occupazione giapponese. L’isola fu quindi coinvolta nella seconda guerra mondiale, cui sopravvissero meno di 1000 isolani.

Terminate le ostilità, Nauru divenne un protettorato dell’Australia che, forte dei mezzi tecnici e delle fonti energetiche postbelliche, riorganizzò in modo assai più efficiente lo sfruttamento economico dei fosfati.

Nel 1968 scadeva il mandato dell’ONU e l’isola divenne uno stato indipendente, formalmente riconosciuto, malgrado le minuscole dimensioni.   E la prima cosa che fece il nuovo governo fu di contrarre un grosso prestito internazionale per comprare i diritti di sfruttamento dalle compagnie minerarie australiane, neozelandesi ed inglesi che li detenevano.

In effetti, questo passaggio avvenne proprio in concomitanza con il picco di estrazione, ma noncuranti di ciò i nauruani non esitarono a contrarre dei debiti per potenziare la loro industria estrattiva e rilanciare la produzione.   Per una quindicina d’anni funzionò e questo isolotto divenne il secondo paese più ricco del mondo, ai punti con l’Arabia Saudita.   Per fare un solo esempio, una popolazione di poche migliaia di persone si permise il lusso, fra l’altro, di una compagnia aerea nazionale con ben sei Boeing 737 che portavano gli isolani a fare shopping in giro per il Pacifico, dalle Hawaii a Melbourne, da Hong Kong a S. Francisco.

Altre centinaia di milioni di dollari furono investite all'estero, dove il governo mise insieme un enorme patrimonio; ivi compreso un intero grattacielo, in centro ad Honolulu, per sistemarvi gli uffici che gestivano questa immensa ricchezza.

Ma alla fine degli anni ’80 la produzione tracollò e nel 2005 l’ultima miniera venne abbandonata.   E con la crisi delle miniere emerse anche il bubbone delle innumerevoli truffe che gli amministratori e la gente di Nauru si erano fatti rifilare negli anni della grande sbornia collettiva.

Incapaci di mantenere il tenore di vita e gli impegni finanziari assunti, i nauruani cominciarono ad arrampicarsi sugli specchi, finendo invischiati fra mafia russa, debiti, tribunali e sanzioni internazionali. Il patrimonio mobiliare ed immobiliare, i diritti minerari, gli aerei e perfino i diritti di pesca sulle acque territoriali, tutto o quasi è finito nel buco.

Oggi Nauru è uno dei paesi più poveri del mondo e sopravvive sostanzialmente di elemosina internazionale.   Le sue entrate principali derivano dalla vendita del loro voto all’ONU e dalla gestione, per conto dell’Australia, di un campo di concentramento per stranieri indesiderati.

Ma non è questa la parte più triste ed istruttiva della storia.

I giacimenti di fosfato di Nauru erano formati da depositi intrappolati fra pinnacoli di roccia calcarea molto dura, coperti da una sessantina di centimetri di suolo straordinariamente fertile.   Il clima era tipicamente tropicale-umido.

Lo sfruttamento minerario ha comportato la completa asportazione della vegetazione e del suolo,
quindi lo scavo dei sedimenti ricchi in fosfati, grattando tra i pinnacoli calcarei.  
Nei decenni, questo ha trasformato l’intera isola in una plaga impraticabile.  

Ma non basta: la vegetazione attuale di Nauru è composta principalmente da una rada sterpaglia che è riuscita ad insediarsi negli anfratti tra le rocce delle miniere chiuse da più tempo. In quelle abbandonate più di recente non c’è praticamente niente.  Di conseguenza, il sole surriscalda la superficie dell’isola, creando una colonna d’aria calda che allontana le piogge. Oggi, un isolotto tropicale in mezzo all'oceano, soffre di siccità cronica e l’acqua dolce proviene da un dissalatore che funziona nella misura in cui altri paesi hanno la condiscendenza di recapitare, via nave, carburante e pezzi di ricambio.


I diritti sulla pesca oceanica sono stati venduti ad altri per pagare parte dei debiti, e comunque i nauruani non sarebbero in grado di farla.   Rimangono le acque costiere la cui fauna è stata oramai ridotta ai minimi termini dalla pesca eccessiva e dall'acidificazione del mare che sta danneggiando questa, come le altre barriere coralline.   Il tentativo di lanciare i turismo in un posto così triste è ovviamente fallito.
Rimane abitabile solo una piccola zona intorno ad un laghetto ed una fascia di un paio di centinaia di metri lungo la costa. Una fascia quasi completamente edificata, che l’innalzamento del livello oceanico finirà con l’inghiottire almeno in buona parte.

Nel frattempo, dall'indipendenza ad oggi, la popolazione è raddoppiata.   Per circa il 30% è costituita da immigrati che vennero per lavorare nelle miniere; per poi restare qui, non avendo i mezzi per tornare in patria.

Ma questa storia non è ancora finita.  Malgrado lo stato di salute precario ed i servizi sanitari in rapida diminuzione, la popolazione continua a crescere vigorosamente, grazie all'elevata natalità. Il cibo viene quasi tutto importato ed è abbondante, anche se di pessima qualità. Una combinazione che ha dato alla gente di Nauru il dubbio primato di popolazione con la massima incidenza di obesità e di diabete del mondo.

Ma il governo non demorde e, proprio in questo momento, sta tentando di rilanciare l’estrazione dei fosfati. Si, perché il fosfato non è finito.  Come normalmente succede, quelli che sono esauriti sono i giacimenti migliori; quelli che davano un buon rendimento con poco lavoro. Ma sedimenti più poveri e più profondi ci sono ancora e per sfruttarli sono stati fatti accordi con delle compagnie minerarie internazionali. Naturalmente ciò spazzerà via anche la rada sterpaglia che è ricresciuta in alcune zone e abbasserà ulteriormente l’isola, rispetto ad un oceano sempre più minaccioso. In compenso, è possibile che ci siano dei proventi, specialmente in vista del prossimo picco dei fosfati sahariani e dei deliranti progetti di sviluppo agricolo dell’Australia settentrionale. Ma anche se gli affari andassero bene per qualche tempo, saranno le compagnie a trarne profitto, non certo per gli isolani che hanno ceduto i diritti e non hanno ancora finito di pagare i debiti.

Se ora allarghiamo lo sguardo alle principali aree estrattive del Pianeta, troviamo che la storia di Nauru è una parabola di validità quasi universale.   E’ vero che all'interno di paesi di taglia normale o grande le dinamiche molto più complesse comportano conseguenze meno rapide e devastanti, ma se scendiamo al livello locale, troviamo che la somiglianza è molto forte.   In Canada, Cina, Stati uniti e molti altri paesi ancora, intere regioni stanno diventando dei veri inferni di voragini e cumuli di detrito, spesso irreparabilmente contaminate da sostanze tossiche e/o radioattive.

Anche nel nostro piccolo italiano troviamo, in scala, dinamiche analoghe. Personalmente, conosco bene l’industria lapidea apuana che sta arricchendo alcune decine di persone, con il sostegno incondizionato delle amministrazioni ed il disinteresse della maggior parte delle persone. Ma quando avranno finito, la gente si accorgerà che l’eredità lasciatagli saranno finanze ed infrastrutture pubbliche irreparabilmente dissestate, uno stato di calamità idrogeologica semi-permanente ed un immenso buco.

Ciò che apparentemente nessuno che conti qualcosa è in grado di capire è che l’industria è oggi un “gioco” a somma negativa in cui chi ha le manifatture vince, a spese di chi ha le miniere e le discariche. Ci sono ragioni termodinamiche e sistemiche precise perché non possa essere che così. Varie volte ne è stato trattato su questo stesso blog e da autori importanti, ma non sembra che, collettivamente, siamo in grado di fermarci.

Nel frattempo, la storia di Nauru procede.   Non è ancora finita, ma lo sarà presumibilmente tra breve. Quali opzioni rimangono possibili per questo popolo che, come tanti altri, ha saputo trasformare la propria fortuna in una maledizione?




martedì 11 marzo 2014

Il marmo sulle Alpi Apuane: ritorni economici decrescenti e costi per la comunità sempre più elevati.


L'estrazione del marmo sulle Alpi Apuane sta diventando un'operazione talmente costosa e distruttiva che la si può paragonare al fracking per il petrolio e il gas naturale - la potremmo chiamare "marming" secondo questa analisi di Jacopo Simonetta. E' un'illustrazione molto chiara del problema che stiamo avendo con tutte le risorse minerali. Non stiamo esaurendo niente, ma ci troviamo di fronte a ritorni economici decrescenti e costi ambientali crescenti. In questo caso, Simonetta fa vedere come il tentativo di mantenere in vita a tutti i costi il processo estrattivo finisca per diventare un costo per l'intera comunità

Di Jacopo Simonetta


"In ultima analisi, la nostra economia è un sistema di incentivi alla distruzione delle risorse" H. Daly, J. Farley.


Qualunque processo industriale si alimenta di risorse e produce contemporaneamente beni/servizi da un lato, costi ambientali e sociali dall'altro.  In queste pagine, ci riferiremo quindi a “costi interni” per indicare le spese che figurano come uscite nei bilanci aziendali.   Chiameremo invece “costi esterni” tutti quei costi che non figurano nei bilanci aziendali e che vengono spalmati sulla popolazione a livello locale (ad es. il traffico, l’esaurimento delle risorse, ecc.) o globale (ad es. emissioni di CO2).
Tenuto conto che le voci in uscita dal punto di vista aziendale (stipendi, tasse, acquisti, ecc.) sono le voci in entrata dal punto di vista collettivo, mentre le voci in uscita per il bilancio collettivo sono in parte le entrate di quello aziendale (consumo risorse), in parte altre (inquinamento, traffico, alterazione/distruzione habitat, paesaggio, ecc.), possiamo avere quattro combinazioni possibili:

Osservando questo schema, si comprende che il fattore discriminante fra le diverse situazioni è dato dal diverso rapporto fra costi di produzione interni ed esterni.   In sintesi:
   ·         Se i costi interni ed esterni sono in equilibrio, l’attività avrà effetti economicamente positivi sia dal punto di vista aziendale che da quello collettivo.  Se, invece, i costi esterni sono lievi e quelli interni forti, l’azienda si troverà in cattive acque.     Se entrambi i costi sono pesanti l’attività sarà passiva sia per l’azienda che per la comunità.    Se, infine, i costi esterni sono più importanti di quelli interni, l’azienda potrà essere florida, ma contribuirà ad impoverire anziché arricchire il territorio e la popolazione.  In pratica, in situazioni come questa, la collettività si fa carico di una serie di spese e di danni per permettere all'attività industriale di proseguire.

Questi temi stanno diventando critici in un numero crescente di casi ed, assieme ad un gruppo di operatori del settore lapideo, abbiamo cercato di capire come si declinassero nel caso del marmo apuano.   Senza alcuna pretesa di completezza, i nostri risultati sono stati reiteratamente presentati a tutti i livelli decisionali per anni, nella speranza, perlomeno, di suscitare un più completo ed approfondito studio, ma invano: nessuno pare aver voglia di veder chiaro sulla questione. Probabilmente il rischio di scoprire che abbiamo ragione è troppo alto.

L’industria lapidea in Versilia.

Per secoli l’estrazione e la lavorazione del marmo hanno costituito una delle basi economiche della Versilia, contribuendo in modo sostanziale a delinearne l’ambiente, il paesaggio, la storia e la società. Nel corso degli ultimi 30 anni circa,  il settore è però andato incontro a progressivi cambiamenti nella sua struttura tecnica, operativa, economica e finanziaria, modificando in modo sostanziale i tradizionali rapporti fra il settore lapideo stesso, il territorio e la società. In particolare, la sempre più spinta meccanizzazione ha comportato un fortissimo aumento dei volumi estratti e dei consumi di energia, riducendo di pari passo la manodopera impiegata.  

Nel contempo, la quota di mercato rappresentato dall'esportazione dei blocchi grezzi è salita del 54% a discapito della vendita di materiali lavorati in loco, diminuiti del 65%.   Questi ultimi, anzi, trovano sempre di più a fronteggiare il “dumping” dei prodotti lavorati all'estero a partire dai blocchi apuani esportati. Anche in questo caso, dunque, si verifica una forte contrazione nel numero di aziende e di addetti, ma un aspetto ancora più preoccupante è quello della lievitazione costante dei costi esterni.

Come qualsiasi altra attività produttiva, infatti, l’estrazione e lavorazione del marmo comporta una serie di vantaggi e di svantaggi, anche limitandosi ai soli aspetti economici. Ma mentre i vantaggi sono direttamente correlati al fatturato ed al numero di addetti, gli svantaggi sono proporzionali ai volumi di materiale mosso.   E’ quindi evidente che la politica di aumentare i quantitativi, abbassando i costi unitari  e la manodopera impiegata crea una situazione perversa in cui i vantaggi gradualmente diminuiscono, mentre gli svantaggi aumentano. Certamente questi problemi sono determinanti nel fare dell’area apuana una delle 10 zone di maggiore criticità ambientale ed economica a livello toscano. Ed anche la più difficile da approcciare, a giudicare dal fatto che è questa l’unica fra le aree di crisi della Toscana per la quale non è stato neppure possibile attivare il tavolo istituzionale di concertazione previsto dal Piano Regionale di Azione Ambientale fin dal 2007.

Trattandosi di un lavoro preliminare, ci siamo concentrati su tre fasi critiche della filiera: escavazione, trasporto a valle, segagione e prima lucidatura delle lastre. Per ognuno di questi passaggi sono state valutate le principali spese inerenti i costi interni (stipendi tasse, acquisto di beni/servizi, ecc.) ed esterni (consumo risorse, inquinamento, impatto sulle infrastrutture pubbliche, consumo di suolo, ecc.). Abbiamo poi considerato il valore commerciale del materiale in entrata ed in uscita da ogni fase della filiera e, quindi, abbiamo avanzato un’ipotesi di saldo aziendale e di saldo collettivo Le cifre si riferiscono ad una “tonnellata tipo”,  vale a dire sui valori medi di una tonnellata costituita per il 15% da blocchi squadrati, 15% da blocchi informi e 70% da pietrame.  Sono valori comuni sulle Apuane, ma singole cave presentano valori anche molto diversi a seconda dei filoni, delle tecniche, ecc.  Inoltre, le cifre sono ai valori del 2008, ma ai nostri fini quello che conta sono le proporzioni fra i diversi costi e ricavi, non la cifra assoluta.

La prima osservazione che balza evidente è che tutti i passaggi della filiera presentano un saldo collettivo negativo, così da piazzare l’attività lapidea nell'area economica in cui il bilancio risulta attivo per le aziende e gli addetti, ma negativo per la collettività. Tuttavia, tale saldo passivo risulta di importanza assai diversa a seconda delle fasi.  

Nel trasporto e nella lavorazione, infatti,  il passivo collettivo appare inferiore al vantaggio aziendale.   Ciò significa che, almeno teoricamente, sarebbe possibile imporre una serie di compensazioni e mitigazioni tali riportare sostanzialmente in equilibrio la situazione. Viceversa, nell’estrazione le esternalità sono superiori di un fattore dieci al valore commerciale del prodotto. Questo dato da solo, per quanto preliminare, rende evidente che, nelle condizioni attuali di mercato,  l’attività di cava di per sé comporta una perdita di ricchezza collettiva considerevole e non realisticamente compensabile. E ciò malgrado le aziende interessate realizzino guadagni consistenti e gli addetti percepiscano stipendi di tutto rispetto.

Un’altra considerazione che risulta evidente, è che l’esportazione di materiale grezzo può essere interessante per le ditte, mentre rappresenta una grave perdita per la comunità.  Un fatto questo empiricamente già ben noto, ma che siamo ora in grado di quantificare nell'ordine di oltre 150 € per tonnellata di roccia scavata. Ciò porterebbe a considerare l’industria lapidea come del tutto negativa nell'economia della Versilia, ma il problema non è così semplice in quanto nel bilancio sociale le perdite sono rappresentate da costi indiretti ed in parte dilazionati nel tempo, mentre le entrate sono dirette ed immediate.  Fra queste, ovviamente, la principale è l’occupazione. 

Abbiamo quindi stimato, come ordine di grandezza, quanta parte della montagna sia necessario rimuovere per generare un posto di lavoro nelle tre fasi della filiera.   Ne è emerso che, mentre per far lavorare un operaio in fabbrica è necessario distruggere annualmente circa 1.000 ton. di roccia (circa 300 mc), per far lavorare un cavatore ne sono necessarie dieci volte tanto (10.000 ton.), mentre per far lavorare un camionista si arriva alla cifra di circa 200.000 ton./anno!

Infine, abbiamo considerato quando rende/costa all'azienda ed alla società un addetto a queste tre, diverse fasi della filiera.

Emerge immediatamente evidente che la collettività si fa carico di costi considerevoli per permettere ad un certo numero di persone di lavorare, ma in misura molto diversa a seconda del lavoro che fanno.    Anche da questo punto di vista infatti, il costo sociale di un camionista o di un operaio in fabbrica potrebbero essere riportati sotto controllo con opportuni provvedimenti, mentre ogni singolo cavatore rappresenta un buco da  oltre 1.000.000 di euro all'anno che vanno spalmati in parte sulla collettività locale, in parte su quella globale.    Ma sempre, si badi bene, in termini non direttamente monetari e dunque difficili da definire ed ancor più difficili da spiegare, specialmente quando sull'altro piatto della bilancia ci sono “soldi subito”.    E molti soldi, i titolari dei permessi di escavazione mettono a bilancio attivi compresi fra i 5 ed i 10 milioni di € l'anno, al netto di tutte le tasse e le spese, comprese quelle di "rappresentanza".  In pratica, quello del marmo apuano è un affare in cui alcune decine di persone si arricchiscono in modo difficile a credere, alcune centinaia ne ricavano un buono stipendio; tutti gli altri pagano per loro.

Una situazione molto ben conosciuta da tutti coloro che si occupano di risorse naturali e su cui sono state scritte intere biblioteche, senza spostare di una virgola l’ago della bilancia decisionale degli enti preposti, siano questi il governo federale degli USA per il “fracking” del gas e del petrolio, od il comune di Stazzema per questa operazione che potremmo chiamare, per analogia, “marming”.