sabato 26 marzo 2016

La storia di Ishi, l'ultimo degli Indiani Yahi, nel centenario della sua morte

Il testo che segue risale al 2000 ed è uno dei i primi documenti che ho scritto su Internet. E' la storia dell'ultimo indiano Yahi della California; scritto per mia figlia Donata, che a quel tempo aveva 11 anni. Mi sembra il caso di ripresentarlo oggi, con qualche piccola modifica, per il centenario della morte di Ishi, il 25 Marzo 1916. (link all'originale)



La storia di Ishi

Carissima Donata,

questa è la storia di Ishi, che visse circa cento anni fa e fu l’ultimo degli indiani "selvaggi" della California, l’ultimo del popolo degli Yahi. A proposito di ultimi Indiani, forse avrai sentito parlare del romanzo che si intitola "L’ultimo dei Mohicani", che fu scritto nel 1826 da James Fenimore Cooper. E’ un romanzo molto famoso e ci hanno fatto anche un film non tanti anni fa. E' la storia dell’ultimo indiano di una tribù Americana, una storia inventata ma molto interessante e che, come molte storie inventate, ha un fondo di verità. E' vero che una volta c'erano tantissime tribù di indiani in America, ma oggi tante sono completamente scomparse, come quella dei Mohicani e quella degli Yahi. Di molte di queste tribù c'e' rimasto ben poco al giorno d'oggi, solo quello che gli archeologi sono riusciti a ritrovare nei posti dove una volta abitavano. Degli Yahi, invece, ci è rimasta la testiminonianza dell'ultimo di loro, Ishi, che visse fra i bianchi per qualche anno. Così è una storia un po’ triste, ma forse in realtà neanche poi così tanto triste. Vale la pena di raccontarla e così cominciamo.


Allora, per prima cosa bisognerebbe spiegare come mai questi che erano i primi abitanti dell’America si chiamano "indiani" e non "americani" come sarebbe più giusto. In effetti, come saprai, quando Colombo e i suoi marinai attraversarono l’oceano Atlantico per primi circa cinque secoli fa, credevano che il mondo fosse molto più piccolo. Credevano di essere arrivati in India (o nelle "Indie", come si diceva allora). Non avevano idea che nel mezzo dell’oceano Atlantico ci fosse un intero continente, quello che ora si chiama America, e così chiamarono "indiani" la gente che trovarono laggiù. In America a quel tempo ci viveva moltissima gente, e avevano città e villaggi di tanti tipi, molti erano più o meno come quello che vedi qui nella figura, che ho preso da un vecchio libro che avevo da ragazzo. Riletto molti anni dopo, è un libro molto ben fatto che racconta molte cose interessanti degli indiani d'america.

Ora, Colombo fece uno sbaglio, ma il nome rimase. Li chiamarono anche "pellirossa" per via delle pitture che si facevano sulla pelle, che poi non era affatto rossa. Oggi c'è chi li chiama "amerindi" per distinguerli dagli Indiani dell’India. Forse meglio di tutti sarebbe chiamarli "indigeni Americani". "Indigeno" è una parola che vuol dire più o meno "che ha avuto origine". In effetti, neanche gli indiani erano proprio "indigeni" dell’America, nel senso che erano arrivati dall’Asia. O almeno questo è quello che dicono i bianchi; secondo molti indiani in realtà loro sono stati creati dai Dio proprio lì dove hanno sempre vissuto. Comunque sia, anche se avessero ragione i bianchi, gli indiani erano lì già da migliaia di anni quando arrivò la spedizione di Colombo, quindi è abbastanza giusto chiamarli "indigeni".

Comunque, "indigeni americani" è una parola piuttosto lunga e per fare più alla svelta continueremo a chiamarli "Indiani", sperando di non offendere nessuno. Allora, dicevamo che gli Indiani venivano dall’Asia e da lì erano arrivati in America. Questo era successo molto prima di Colombo, in un tempo in cui nessuno avrebbe potuto attraversare un oceano. Pare che i nostri più remoti antenati, quelli che abbiamo in comune con gli Indiani e con tutti quanti al mondo, siano vissuti in Africa molte migliaia di anni fa, tantissimi anni davvero. Dall’Africa, piano piano si sparsero per l’Europa e per l’Asia. In quei tempi remoti, migliaia di anni fa, qualcuno che abitava in quella regione che oggi chiamiamo "Siberia" decise un inverno di rincorrere la selvaggina più lontano del solito. Attraversarono a piedi quello che oggi chiamiamo di "lo stretto di Bering" e che sta fra la Siberia (in Asia) e l’Alaska (in America), ma che a quel tempo non era un mare, ma terra emersa. Una volta arrivati in Alaska non tornarono più indietro. Pare che più di un gruppo abbia fatto questo passaggio in tempi diversi, ma in ogni caso il risultato fu che i loro discendenti popolarono tutta l’America.

C’erano tantissimi indiani in America, forse parecchi milioni, al tempo in cui Colombo arrivò. Tutti questi indiani avevano usanze, costumi, lingue e modi di vivere diversi: spesso quando pensiamo agli indiani pensiamo a dei guerrieri a cavallo più o meno come si vedono nei film. Ma in realtà gli indiani non avevano cavalli prima che i bianchi li portassero dall’Europa. Erano agricoltori, pescatori, pastori, oppure cacciatori, ma tutti andavano a piedi. Molti vivevano in capanne di pelle, ma avevano anche città con case di legno e di pietra. Non erano così bravi come gli Europei a lavorare i metalli e a farsi cose come asce, coltelli e fucili, ma fabbricavano tutto (anche cose bellissime) di pietra, di legno, oppure di osso.

Allora, quando gli europei arrivarono in America, successe che gli indiani non erano abituati alle malattie Europee (e neanche gli Europei a quelle degli indiani), comunque nell’incontro gli indiani ne ebbero i maggiori danni. C’è chi ha detto che dopo meno di un secolo dall’arrivo degli europei erano morti di malattie infettive forse nove indiani su dieci in America. Questa fu una cosa terribile: pensa come sarebbero qui le cose se morissero nove persone su dieci di tutti quelli che conosci! Poi, gli europei cominciarono ad arrivare con le loro navi e a stabilirsi in America. Non che la maggior parte degli Europei ce l'avessero in particolare con gli Indiani. Il problema era che cli Indiani avavano bisogno di terra per cacciare e coltivare, gli europei volevano la stessa cosa. Se non riuscivano a mettersi dacccordo, il che sembra che succedesse spesso, finivano per fare a botte, cosa che quando si fa fra parecchia gente si chiama "guerra".

Nelle guerre con in bianchi, gli indiani persero quasi sempre. Non che non fossero bravi o coraggiosi, no di certo, ma gli mancavano le armi ed erano rimasti in pochi dopo le malattie di cui dicevamo prima. In qualche secolo di guerre, gli indiani vinsero solo una grande battaglia, quella di "Little Big Horn" nel 1876. Quella volta, gli indiani della tribù dei Lakota, che erano parte del popolo dei Sioux sconfissero i soldati del generale Custer che era venuto ad attaccarli. Ma alla fine anche quegli indiani furono sconfitti.
Nella foto vedi il capo Lakota che si chiamava "Nuvola Rossa" e che guidò gli indiani in quella famosa battaglia contro Custer.

Comunque, da quando i bianchi arrivarono, per gli indiani non ci furono che guerre, battaglie e sconfitte. Piano piano, rimanevano sempre meno indiani e i bianchi si prendevano le terre migliori, ammazzando gli indiani o lasciando loro le "riserve", che erano terre aride e poco fertili che nessuno voleva. Nell’America di oggi le città e tanti posti si chiamano ancora con i gli antichi nomi indiani. Ma tutti furono cacciati via o uccisi molto tempo fa. Certo, non tutti gli indiani furono sterminati. Esistono ancora gli Indiani, anzi sono più di quanti fossero al tempo delle grandi guerre. Oggi sono tutti cittadini americani, parlano inglese e nessuno si sognerebbe di sterminarli. Pero' la maggior parte di loro non vivono più nelle loro terre. Vivono nelle riserve, o nelle stesse città dove vivono i bianchi. Solo alcune tribù hanno mantenuto i loro territori. Sono i Navajo, gli Zuni, i Pueblo e altri che vivono in zone desertiche dove i bianchi non sono particolarmente interessati ad andare.

Ora, questa storia di cacciar via la gente dalle terre dove aveva vissuto per migliaia di anni non era certamente una bella cosa. Per giustificazione, si diceva a quei tempi che gli indiani erano dei "selvaggi", che erano incivili, crudeli, assassini, ladri e tante altre cose del genere. Tanto per dirne una, li accusavano di "scalpare" la gente. Prendere uno scalpo (oppure anche "scalpare") era in effetti una cosa terribile. "Scalpo" vuol dire, letteralmente "la pelle della testa" e scalpare voleva dire di portar via i capelli di un nemico ucciso (o forse ancora vivo, poveraccio), con ancora attaccata la pelle, appunto lo scalpo. Il bello è però che la maggior parte degli indiani d’America non avevano mai sentito parlare di scalpi prima di incontrare i bianchi. Pare che l’usanza degli scalpi fosse stata inventata da certi indiani del nord America, gli Iroquois. Però è anche vero che furono i bianchi che scalpavano gli indiani e non viceversa, addirittura per un certo tempo il governo pagava qualcosa per ogni scalpo di indiano che i pionieri gli riportavano. Quindi vedi, poveracci, che brutte cose che si raccontavano di loro e non era vero nulla. (vedi qui un’immagine dei "cattivi" indiani che maltrattano una povera ragazza, ovviamente dipinto da un bianco).

Adesso le cose sono molto cambiate e non è più il tempo in cui si diceva che "l’unico indiano buono è un indiano morto". Anzi, molti dicono che gli indiani erano buoni, nobili, amanti della natura, eccetera, mentre i bianchi del tempo erano selvaggi e cattivi. Forse tutte e due i modi di vedere sono un po’ esagerati. Ci furono parecchi bianchi che cercarono di fare il possibile per salvare gli indiani anche se – purtroppo – non ce ne furono mai abbastanza. D’altra parte, neanche gli indiani dovevano essere tutti buoni come angioletti. Tanto per dirne una, i loro antenati avevano probabilmente sterminato cavalli, mammuth e altri animali che prima erano abbondanti in America ma che dopo che arrivarono gli indiani sparirono completamente. Dei grossi animali rimasero solo i bisonti, che forse erano più furbi o più robusti (i bisonti sono sopravvissuti anche alle stragi fatte dai bianchi, anche se oggi ce ne sono rimasti pochi). Gli indiani, comunque, non dovevano poi essere tanto amanti della natura, dopo tutto, se avevano fatto sparire tanti animali. Come sembrerebbe ragionevole, ci dovevano essere indiani buoni e cattivi, come sicuramente ce n’erano di furbi e di tonti, di belli e di brutti, alti e bassi, come dappertutto e come del resto erano i bianchi e come sono tuttora.

Allora, continuando la storia, dobbiamo parlare ora della tribù degli Yahi, la tribù di Ishi. Erano parte di un gruppo di indiani che si chiamavano Yana, e che vivevano nella California centrale. Non erano molti, forse gli Yana erano qualche migliaio, gli Yahi poche centinaia. Vivendo in una zona di foreste e di montagne, per molti anni non avevano avuto gran che a che fare con i bianchi. Quando i bianchi cominciarono ad arrivare nelle terre degli Yana, gli indiani della costa Est degli Stati Uniti erano già quasi scomparsi e gli indiani delle praterie combattevano le loro grandi ultime battaglie.

Gli Yana e gli Yahi non erano i grandi guerrieri selvaggi dei film. Erano cacciatori e pescatori che vivevano nella foresta. Non davano noia a nessuno, almeno fino a quando i bianchi non arrivarono. A quel punto cominciarono le guerre, e – come ci si poteva aspettare – gli indiani furono sconfitti. Gli Yana furono quasi tutti uccisi e quei pochi che sopravvissero furono cacciati via dalle loro foreste. Gli Yahi riuscirono a resistere per qualche decina d’anni combattendo il meglio che potevano. Alla fine, verso il 1870, furono tutti sterminati.

O almeno così pensavano i bianchi. Invece, nel 1911 un indiano spuntò fuori dalla foresta, l’ultimo sopravvissuto degli indiani Yahi. Il poveraccio era ridotto molto male quando lo arrivò a Oroville, che
è un paese della California del nord. Era quasi nudo, magrissimo, con i capelli bruciacchiati. Era anche molto spaventato, e probabilmente si aspettava che i bianchi lo ammazzassero subito. Invece era passato il tempo in cui si ammazzavano gli indiani a prima vista. Gli dettero da mangiare, una specie di camicione per vestirsi, e un posto per dormire. In effetti, lo sceriffo del paese lo mise in galera, ma solo perchè non aveva altro posto dove farlo dormire in pace senza che tutta la gente del paese venisse a disturbarlo.

Questo indiano parlava una lingua che nessuno capiva e siccome non c’erano più indiani da tanti anni in quella zona, la gente lo guardava come oggi guarderemmo un marziano atterrato all’improvviso. Quasi subito vennero a vederlo dei professori dell’università della California a Berkeley che erano degli antropologi. La parola "antropologia" vuol dire, più o meno, "scienza dell’uomo" e gli antropologi sono quelli che studiano le usanze e la cultura dei popoli della terra. Uno di questi antropologi, che si chiamava Waterman, chiese di portare l’indiano all’università per studiarlo. Siccome nessuno sapeva esattamente cosa farne, finì che i professori poterono portarselo via.

Questo indiano abitò per cinque anni a San Francisco e a Berkeley fino alla sua morte. Di questo tempo ci sono parecchie cose da raccontare. Prima di tutto, come fu che lo chiamarono "Ishi" che in realtà non era il suo nome. Il fatto è che lui non volle mai dire a nessuno il suo vero nome. Non che volesse offendere nessuno, anzi era un tipo molto amichevole. Non si sa in effetti come mai non voleva dire il suo nome, e il fatto che non imparò mai bene l’Inglese non è che rendesse facile spiegarsi. Pare che gli indiani non amassero dire il proprio nome a nessuno oltre che ai membri della propria tribu’ e famiglia. Comunque, in fondo era una sua scelta, poveraccio, considerato da dove veniva e i guai che doveva aver passato tanti che non c’era da stupirsi se si comportava in un modo che non era proprio del tutto uguale ai bianchi. Insomma, il nome "Ishi" glie lo dette un altro professore di Antropologia che si chiamava Alfred Kroeber. Un giorno che tutti gli chiedevano come si chiamava quell’indiano che era arrivato dai boschi, non sapendo cos’altro dire, Kroeber disse che era "un uomo" in una delle lingue indiane che conosceva, ovvero "Ishi". Il nome rimase, e sembra che anche Ishi stesso fosse contento di essere chiamato così.

Ora, dovremmo anche raccontare da dove arrivava Ishi. Come abbiamo detto, i bianchi pensavano di aver sterminato tutti gli indiani Yahi verso il 1870, cioè 40 anni prima che Ishi spuntasse fuori dai boschi. Evidentemente non era così, qualcuno era rimasto vivo. Da quel poco che Ishi raccontò (non amava parlare di queste cose) erano rimasti soltanto lui, sua sorella, sua madre e suo padre, quattro persone in tutto. Il fatto strano, comunque, non è che qualcuno fosse riuscito a sfuggire ai bianchi, ma che questi quattro siano riusciti a sopravvivere per tanti anni da soli. Per una tribù di centinaia di persone ben organizzate che facevano anche scambi e commercio con le tribù vicine non era difficile vivere e prosperare nella foresta. Ma per quattro persone? Come hanno fatto? Pensa che non avevano assolutamente niente che non si potessero costruire da se con quello che trovavano: sassi, legno e pelli di animali. E in più dovevano anche nascondersi dai bianchi che li avrebbero ammazzati se li vedevano. Noi non saremmo sopravvissuti neanche tre giorni, loro ce la fecero per decine di anni! Sapevano fare cose che i loro padri e i loro nonni gli avevano insegnato: come costruirsi archi per andare a caccia, fiocine per pescare, capanne per ripararsi. Come accendere il fuoco senza fiammiferi, conciare pelli per vestirsi, e – soprattutto – come non perdersi d’animo di fronte alle difficoltà.

Quando arrivò fra i bianchi, Ishi aveva circa cinquant’anni e di questi ne aveva vissuti almeno 40 nei boschi da solo o soltanto con i suoi genitori e la sorella. Ma, a parte gli ultimissimi tempi, non aveva mai sofferto la fame o le malattie: era un uomo sano e vigoroso. Soprattutto non aveva mai perso il buon umore, ancora a parte l’ultimo periodo, e lo riprese ben presto fra i bianchi che – dopotutto – non erano così cattivi come pensava. Non dovevano essere stati infelici questi ultimi Yahi solitari nei boschi, ma non potevano fare a meno di invecchiare. Ishi non volle mai dire che cosa esattamente fosse successo, ma sembra che sua madre e suo padre morirono di vecchiaia o di qualche malattia, e che sua sorella annegò mentre attraversava un fiume. Rimasto tutto solo, la vita nei boschi dovette sembrare veramente troppo difficile per Ishi. Si bruciò i capelli in segno di lutto, come usavano fare gli indiani della sua tribù, rimase per molti giorni indeciso sul da farsi e poi – affamato – decise di andare dai bianchi.

E così Ishi si ritrovò all’Università della California in mezzo a grandi professori che erano interessatissimi a sapere tutto di lui. Come abbiamo detto, c’erano due antropologi, uno che si chiamava Waterman, l’altro Kroeber, che poi diventò molto amico di Ishi. C’era anche un professore di medicina che si chiamava Saxton Pope, che diventò anche lui molto amico di Ishi. Ishi insegnò un sacco di cose a tutti questi professori. C’è una storia curiosa a propositò di Waterman, che si entusiasmò talmente a vedere Ishi che accendeva il fuoco sfregando due bastoncini che volle provarci lui stesso davanti a tutti i suoi studenti in classe. Non ci riuscì e ci rimase molto male.

Ishi sapeva fare tutte le cose che fanno quelli che vivono di caccia e di pesca nei boschi, come i nostri antenati sapevano fare tanto tempo fa. Come dicevamo, sapeva accendere il fuoco sfregando due pezzi di legno, il che deve essere veramente una cosa difficilissima. Sapeva farsi delle punte di freccia con dei pezzetti di pietra di selce o di ossidiana, sapeva costruirsi archi e freccie, e anche fiocine e altre cose. Era talmente bravo a costruire archi che il suo amico Saxton Pope diventò anche lui bravo con l'arco e le freccie. A quel tempo quasi nessuno tirava con l’arco per sport come facciamo oggi. Pope già si interessava un po’ di archi ma Ishi gli insegno un sacco di cose. Pope e un suo amico che si chiamava Young  sono ancora considerati dei grandi pionieri del tiro con l'arco.

Ma come si trovava Ishi fra i Bianchi? Di certo poteva sentirsi molto solo, o addirittura infelice. O almeno così ci sembrerebbe. Pensa come ci troveremmo noi in un paese di marziani dove nessuno parla la nostra lingua. In realtà non sembra che Ishi sia stato ne solo ne triste negli anni che visse a Berkeley e a San Francisco. Come abbiamo detto, era un tipo sano e abituato a sopravvivere in tutte le condizioni. Fra i bianchi, imparò molto alla svelta modi e usanze. Certo, non imparò mai molto bene l’inglese, imparare una nuova lingua e sempre un po’ difficile quando si anno più di cinquant’anni. Ma si vestiva come i bianchi, portava la cravatta, andava in autobus. Era, a detta di tutti, una persona gentile ed educata. Esattamente l’opposto di quello che chiameremmo un "selvaggio". E infatti, se Ishi aveva vissuto nei boschi non dobbiamo pensare a come staremmo noi se vivessimo nei boschi. Noi ci staremmo male e - davvero – finiremmo per pensare di essere dei "selvaggi" e forse ci comporteremmo come tali. Ma per Ishi era una cosa naturale, e i suoi genitori avevano vissuto così e tutti i suoi antenati per tante generazioni. Avevano le loro usanze, le loro tradizioni, anche il loro galateo su come comportarsi a tavola. Tante cose che, purtroppo, sono andate perdute con Ishi, insieme alla lingua degli Yahi, ma così va il mondo e forse era inevitabile.

Allora, dicevamo che Ishi portava la cravatta e andava al ristorante. La cucina dei bianchi gli piaceva, ma non amava i sughi. Gli piacevano molto i gelati con la panna. Non beveva alcol e neanche
fumava. I primi tempi fra i bianchi ingrassò un po’, una cosa comprensibile dato che aveva sofferto la fame nell’ultimo periodo nei boschi. Poi decise di mettersi a dieta e ritornò in piena forma. L’università gli dette anche un lavoro, che non era poi gran cosa – faceva le pulizie al museo di antropologia – ma che gli faceva guadagnare un po’ di soldi. Tutti erano daccordo che era una persona molto simpatica, anche se – ovviamente – aveva modi di fare un po’ diversi dagli altri e non parlava bene la lingua. Per esempio, non riuscì mai a capire veramente il significato della parola "arrivederci". In effetti, se ci pensiamo bene, non è che "arrivederci" significhi qualcosa, e solo una cosa che si dice. Evidentemente fra gli indiani non usava parlare così e quando Ishi salutava qualcuno che se ne andava diceva semplicemente "te ne vai", il che probabilmente va altrettanto bene di "arrivederci" se chi lo dice lo dice in modo cortese.

Una sola volta Kroeber e Pope andarono con Ishi nelle foreste da cui lui era venuto. Ishi non era molto entusiasta di tornarci, probabilmente perché si ricordava di cose che per lui erano molto tristi, ma poi accettò. Passarono una settimana nei boschi e Ishi potè nuotare e andare a caccia nella sua foresta. Fece vedere ai suoi amici il posto dove era vissuto con la sua famiglia. Non era rimasto molto, solo qualche pezzo di legno delle capanne che stavano in una specie di canalone, ben nascoste per non farsi scoprire dai bianchi. Di sua madre, suo padre e sua sorella non volle dire nulla. Solo il figlio di Saxton Pope, che a quel tempo aveva 12 anni e c’era anche lui, si ricorda che una notte Ishi se ne andò da solo per la foresta e al ritorno disse soltanto a lui che "tutto era a posto". Voleva dire, probabilmente, che aveva fatto qualche rito per l’anima dei suoi parenti e antenati e che adesso potevano riposare in pace.

Come abbiamo detto, negli anni in cui visse a Berkeley Ishi insegnò molte cose agli antropologi. Ma più di questo diventò loro amico. Pensa che quando Ishi arrivò all’università, Alfred Kroeber ne parlava un pò come se fosse un animale da studiare, qualcosa che gli serviva per il suo mestiere di antropologo. Col tempo cambiò idea, e quando seppe che Ishi era molto malato e che qualcuno pensava di imbalsamarlo dopo la morte per conservare il corpo "per la scienza" lui (che a quel tempo era lontano, in Europa) scrisse una lettera dicendo che Ishi lo dovevano seppellire secondo i riti della sua tribù e "al diavolo la scienza" (Qualche idiota, però, prelevò lo stesso il cervello di Ishi e lo mise in un barattolo sotto alcol, lo conservano ancora a Berkeley). Kroeber non volle più scrivere nulla si "scientifico" su Ishi per tutta la sua vita – voleva ricordarlo solo come un suo amico. Solo dopo che lui morì, nel 1960, sua moglie, Theodora Kroeber, scrisse un libro in cui raccontava la storia di Ishi come lei lo aveva conosciuto.

Eh si. Ishi era una persona sana e robusta ma, come tutti gli indiani, non resisteva bene alle malattie dei bianchi. A un certo punto si ammalò di un’infezione ai polmoni che si chiama "tubercolosi". Oggi la curiamo con gli antibiotici, ma a quel tempo non esistevano. Il suo amico dottore, Saxton Pope, fece tutto quello che poteva per curarlo, ma non ci fu niente da fare. Così Ishi morì nel 1916, cinque anni dopo essere arrivato fra i bianchi. Aveva circa 55 anni. Fu "cremato" (ovvero il suo corpo fu bruciato) secondo le usanze della sua tribù. Le sue ceneri sono in un cimitero di San Francisco. Sulla tomba, c’è scritta una delle frasi che usava dire per salutare la gente: "voi restate, io me ne vado". Si parla di riportare le ceneri di Ishi nella terra della sua tribù e di seppellirlo laggiù, così potra riposare insieme con i suoi antenati. Forse adesso sono tutti in qualche terreno di caccia più alto e più abbondante.

Può darsi che questa storia sembri un po’ triste, ma forse non dobbiamo pensarla così. Ishi, anche se è stato così poco fra di noi, ci ha insegnato tante cose e ancora tanta gente si ricorda di lui dopo tanti anni. A noi probabilmente non capiterà mai di essere constretti a sopravvivere da soli nei boschi costruendoci archi e punte di freccia. Ma anche a noi alle volte ci può prendere lo sconforto di fronte alle difficoltà: anche se non corriamo il rischio di morire di fame possiamo sentirci soli, circondati da gente che non ci capisce. Ishi però non si arrendeva mai di fronte alle difficoltà: sapeva come sopravvivere. Per riuscirci non bisogna mai perdere l’ottimismo. In fondo i nostri antenati di qualche passato millennio erano cacciatori che vivevano nei boschi proprio come Ishi aveva vissuto neanche un secolo fa. Così possiamo certamente imparare qualcosa da lui.


Di Ishi e degli Indiani Yahi non rimane oggi assolutamente niente nelle terre in cui avevano abitato. E’ una bellissima zona, che oggi fa parte del "Parco Nazionale di Lassen" e della "Foresta Nazionale di Lassen"dal nome (Lassen) di uno dei primi esploratori bianchi che c’erano arrivati. Si chiama "monte Lassen" anche il grande vulcano che è all’incirca nel mezzo del parco. E’ curioso che dopo che i bianchi hanno ammazzato o cacciato via gli indiani che ci abitavano, non siano poi andati ad abitarci loro. Oggi non ci vive nessuno, eccetto i turisti che ci vanno in campeggio d’estate. Se ti ricordi, ci siamo stati insieme. E’ una zona di laghi, di fiumi e di boschi, ricca di animali selvatici. Nella foto con tuo fratello Francesco, le montagne che si vedono in lontananza sulla destra sono proprio l’antica terra degli Yahi.


Nota aggiunta nel 2016: oggi quella zona si chiama "Ishi National Forest", in onore di Ishi.